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In attesa di un calo dell’inflazione

of Corona S.


Sono anni difficili, dagli innumerevoli imprevisti, tutti negativi. Chi avrebbe mai potuto immaginare che avremmo dovuto superare una pandemia senza precedenti nell’ultimo secolo, a cui sarebbe seguita una guerra nel cuore dell’Europa e un conflitto di enormi proporzioni in Medio Oriente, nel mezzo di un cambiamento climatico epocale?
Vere e proprie piaghe sociali le cui conseguenze si riversano su interi continenti e talvolta anche su Paesi poco o nulla interessati dal punto di vista geografico ma che, in un’economia così globalizzata, risentono immediatamente di ciò che accade a migliaia di chilometri di distanza.
Potenze come Germania e Cina sembrano indebolite e spente. I maggiori Paesi pensano al riarmo, mentre le piazze gridano alla pace e a soluzioni diplomatiche. L’Europa si scopre sempre più debole e vecchia e sullo scenario internazionale si modificano assetti che nessuno avrebbe prima messo in dubbio. Mutamenti geopolitici, migrazioni, recessioni economiche, persino elementi teoricamente meno preoccupanti come l’intelligenza artificiale e le sue possibili conseguenze sul mercato del lavoro, contribuiscono a popolare i pensieri dei consumatori e a condizionarne, direttamente o indirettamente le scelte, anche di fronte allo scaffale.
D’altronde, l’incertezza generalizzata che si vive quotidianamente non fa che alimentare comportamenti di prudenza nella spesa e nella gestione del risparmio.
Economicamente le situazioni come queste hanno principalmente un risvolto: l’inflazione galoppante. Un fenomeno che solo negli ultimi 2 anni ha abbattuto il potere d’acquisto in una misura pari a 6.700 euro pro capite e che, secondo la Coop (Rapporto 2023) non vedremo calare a livelli pre-pandemici prima del 2025. Sempre che nel frattempo la situazione non precipiti per altri motivi al momento non prevedibili.
L’inflazione è un brutto male che in casi estremi si cura con un farmaco altrettanto impattante: l’aumento dei tassi d’interesse. Un incremento che, dopo oltre un anno, sembra dare i suoi frutti, ma che assomiglia molto ad una terapia talmente forte che finisce per indebolire il paziente al punto da ucciderlo. È uno degli elementi che sta mettendo in ginocchio le famiglie e arrestando il mercato immobiliare, con tutto ciò che ne consegue.
In questo scenario, torna l’economia dello zero virgola, dopo il veloce esaurimento di una brillante e repentina crescita post-pandemica del biennio 21/22. Sempre secondo Coop, l’Italia frena sui consumi, si intaccano i risparmi e si torna all’indebitamento delle famiglie.
E se nella prima metà dell’anno 2023 la previsione era già quella di una brusca inversione di rotta (36% degli Italiani intendevano ridurre i consumi, contro solo l’11% che pensava di aumentarli), i già timidi segnali di incoraggiamento dell’epoca (ma stiamo parlando di meno di un anno fa!) non avevano ancora fatto i conti con quello che sarebbe successo il 7 ottobre sulla striscia di Gaza.
Ad alcuni mesi di distanza, e con altri elementi negativi in atto, l’unica nota che lascia ben sperare rimane quella del Pnrr, la più grande iniezione di risorse dagli anni Ottanta ad oggi. Una tale spinta finanziaria da impattare sul Pil per oltre 3 punti percentuali entro il 2026.
E in uno scenario che non era favorevole nemmeno prima dell’impennata dei prezzi, si fanno i conti con una dinamica delle retribuzioni che non è minimamente adeguata e con stipendi che erano già ai minimi prima che la situazione precipitasse. Il lavoro, che al momento non manca – +2,3% su base annua nel secondo trimestre 2023 con 23,5 milioni di occupati, mai così tanti dal 2008 – è un impegno che da solo non paga quanto dovrebbe e che soprattutto non basta più. Secondo Coop, infatti, il 70% degli occupati dichiara di avere necessità almeno di un’altra mensilità per condurre una vita dignitosa.
Non a caso in tanti, quelli che possono, aumentano il numero di ore lavorate (27%), fanno lavoretti aggiuntivi (25%), hanno in famiglia persone che prima non lavoravano e che ora sono costrette a farlo (19%). Pertanto le ore lavorate si moltiplicano, eppure non bastano a fronteggiare il devastante impatto di prezzi e costi mai visti prima.
Le cifre sono impietose: nel settembre 2023 il 10% degli Italiani dichiarava di non arrivare a fine mese e un ulteriore il 23% di arrivarci, ma in uno stato di costante preoccupazione. Per scollinare da uno stipendio all’altro si fanno importanti rinunce o grandi sacrifici. Solo un Italiano su quattro dichiara di fare senza problemi la vita di qualche anno fa. A soffrire di più di questo cambio di marcia economico, è la classe media. Ma coloro che accusano maggiormente il colpo sono i giovani che fanno capo alla generazione Z (18-34 anni), che fanno i conti con disparità retributive e trattamenti complessivi nettamente inferiori a quelli dei propri genitori. A parità di inquadramento un giovane italiano guadagna infatti quasi la metà di un over 50. Non a caso, il 40% di loro ipotizza di espatriare o almeno cambiare domicilio entro 2/3 anni e il 20% si sta già organizzando per farlo.
Così quasi la metà degli Italiani è entrata in un tunnel di disagio cronico che li porta ad adeguarsi ad uno standard di vita nuovo, meno favorevole, sul fronte di cibo, salute, casa, mobilità, tecnologia, socialità e intrattenimento. Calano le compravendite immobiliari (–14,5% 2023 su 2022 e, in prospettiva sul 2024, –4%), si riducono gli acquisti delle auto nuove e dei beni tecnologici e in particolare, si riducono le vendite di smartphone nuovi.
In un mood tra la sopravvivenza e l’amore per l’ambiente, la virata è verso la sostenibilità, in cui usato o ricondizionato sostituiscono il nuovo, un po’ per scelta, un po’ per costrizione. Ma ciò che certamente fa riflettere, in un Paese in cui, negli ultimi decenni, nemmeno le peggiori delle crisi sono riuscite ad incrinare l’attenzione del cittadino medio per il cibo, è la rinuncia all’identità alimentare nazionale. In questa guerra contro un’inflazione che ha rincarato di oltre il 21% il costo degli alimentari — e che non promette di arrestarsi del tutto prima dei prossimi due anni — i carrelli della spesa si fanno sempre più leggeri.
Oltre alla riduzione dei volumi acquistati, l’orientamento è quello di contenere gli sprechi, rinunciare a prodotti non strettamente necessari e ad ampio contenuto di servizio. Ed ecco che si generano quei meccanismi classici di più larga scala: la spesa è più frequente, ma anche più leggera. L’attenzione al risparmio cancella la fedeltà al canale d’acquisto, privilegiando i discount.
L’inflazione è combattuta preferendo gli acquisti di prodotti in private label rispetto a quelli delle grandi marche e il legame con il cibo identitario viene inesorabilmente sacrificato sull’altare del saldo di conto.
Tradizione, storia, cultura e territorio devono fare un passo indietro di fronte alla necessità di arrivare a fine mese. In questo scenario, i consumi di frutta e verdura hanno la peggio (–15,2% il consumo negli ultimi due anni e per il 16% degli Italiani si ridurrà ancora) e prodotti come la pasta secca o il pane confezionato mantengono la posizione o, addirittura, la migliorano, per motivi facilmente intuibili.
NielsenIQ, nel confermare che è diffusamente riscontrabile in Italia un atteggiamento più cauto e prudente nelle spese, con un più incalzante controllo dei budget familiari e una netta tendenza alla riduzione del superfluo, sottolinea la tendenza a limitare anche pranzi e cene fuori casa.
E se alcuni prodotti fondamentali della Dieta Mediterranea mostrano una sostanziale tenuta, si conferma un segno meno per i prodotti ortofrutticoli, condizionati però anche da campagne di informazione che hanno alimentato, in molti casi, il sospetto di derive speculative.
Ancora una volta, nello scenario complessivo delle strategie adottate da consumatori e dalle principali insegne della Distribuzione Moderna, il caro-vita viene fronteggiato con un occhio attento alle promozioni che, seppure tendenzialmente in calo, continuano a catalizzare maggiormente nel retail e all’acquisto di formati famiglia. Secondo NielsenIQ è rappresentata da una quota straordinariamente elevata la percentuale dei consumatori che ha cambiato il modo di fare la spesa (il fenomeno ha riguardato il 95% dei casi), ma non è questa la sola strategia adottata per far fronte ad una situazione che non si vedeva da anni.
Non si pensi comunque che gli Italiani buttino alle ortiche millenni di cultura del cibo per un problema economico che impone ristrettezze. Sacrificio non sempre significa rinuncia completa, ma restano persino gli spazi, sebbene decisamente limitati, per nuove tendenze a tavola.
A fronte del plant-based — ovvero un approccio al cibo basato principalmente sull’assunzione di prodotti vegetali — le cui vendite secondo Coop registrano un +9% anno su anno, si conferma la demonizzazione degli zuccheri e l’esaltazione delle proteine e per l’healthy (alimentazione sportiva, frutta secca, bevande salutistiche che crescono), pur con un occhio alla tutela del pianeta.
Ben 5,1 milioni di Italiani dichiarano di alimentarsi a spreco zero, 2,8 si definiscono reducetariani e 1,4 sono i cosiddetti climatariani (ovvero coloro che usano prodotti a basso impatto CO2).
A farne le spese è soprattutto la carne. Il 39% del campione Coop dichiara di essere disposto a ridurne il consumo. Nella top 5 dei nuovi cibi che secondo gli Italiani compariranno in tavola nei prossimi 10 anni figurano i prodotti a base vegetale con il sapore di carne (31%) e la carne sintetica prodotta in laboratorio (28%).
Speriamo siano unicamente le difficili condizioni contingenti a far parlare così un popolo che sulla cultura del cibo e su quello che vi gravita attorno ha fondato la sua fortuna. Staremo a vedere.


Sebastiano Corona



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