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Storia e cultura

Il riso: le sue origini e la diffusione tra i popoli

di Scaglioni C.

Intendo iniziare questo approfondimento sul riso sostenendo che ognuno di noi porta, nella vita personale, tutta l’esperienza, in positivo o in negativo, che ha memorizzato nella sua adolescenza: trovo quanto sto dicendo fondamentale, a proposito proprio delle abitudini alimentari acquisite nella mia famiglia e con le quali sono stata cresciuta.

Risotto con peperoncino.

I miei genitori erano due professionisti trasferitisi appena sposati nel nord Italia. Mio padre, della provincia di Salerno, era un importante funzionario dello Stato e mia madre, di Palermo, un’insegnante. Dico questo per chiarire che, anche se si trattava di persone di cultura e della buona borghesia, in casa mia si mangiava il riso raramente e, nonostante avessimo avuto per quasi venti anni una domestica fissa, che ci lasciava a maggio per andare a fare la mondina, mai le abbiamo chiesto di prepararci un risotto.

Risotto con verdure.

Le usanze di casa, però, non impedivano a mio padre, quando andavamo a Roma da piccoli, di farci poi mangiare il famoso “supplì al telefono”, che era la disperazione di mia madre, perché io e mio fratello ci sporcavamo, regolarmente, con i fili di mozzarella che uscivano dal ripieno. Confesso che non mi sono mai posta il problema di questo modo di agire dei miei, che invece mi si è perfettamente chiarito allorquando mi sono imbattuta in una pagina del libro sulla storia della cucina italiana di Massimo Alberini (“Storia della Cucina Italiana”, Casale Monferrato, AL, PiEmme, 1992), il quale, appunto, racconta del grido di dolore di una madre napoletana, trasferitasi a Vercelli, intenta a spiegare ad una conoscente perché aveva ritirato la sua bambina dall’asilo: «Signora mia — disse — pensate che a Nunziatina la minestra di riso ci volevano dare…». La motivazione per questo atteggiamento negativo del meridionale “pastaiolo” nei confronti di tale cereale era dovuta anche al fatto che, durante la guerra del 1915-18, molti abitanti del sud, mandati al fronte a combattere, erano stati costretti a mangiare un rancio orrendo, ossia una minestra di riso cotto servita a dorso di mulo in trincea. Una poltiglia immangiabile, rimasta nel ricordo e trasmessa in negativo alle generazioni venute successivamente. A parte questa considerazione, è anche vero che, proprio al sud, dobbiamo uno dei piatti più prestigiosi della cucina italiana realizzato con il riso: il “sartù”, specialità con parecchia tradizione alle spalle.

Un po’ di storia

La storia millenaria del riso appassiona da sempre gli studiosi. Le sue origini sono controverse, ma certamente la sua patria è l’estremo oriente. Viene definita una pianta indiana senza padre e senza madre, nata non da un seme ma da un prodigio. Bellissime le leggende (favole io direi) che accompagnano la sua nascita, sia quella di Retna Doumilla che quella del Buon Genio il quale, disperato dalla carestia che affligge il suo popolo, si strappa i denti che per magia si trasformano in migliaia e migliaia di chicchi di riso, capaci di consolare per sempre le mense, non solo cinesi, ma di tutto l’oriente.

La storia del riso è veramente bizzarra essendo uno degli alimenti più antichi e più consumati: ha carattere mondiale perché coltivato in buona parte del globo, multinazionale perché presente negli scaffali di tutti i negozi del pianeta, multietnico perché ricette con il riso si trovano in quasi tutti i ricettari del mondo gastronomico ma, nonostante queste sue caratteristiche di universalità, il cammino del riso è misterioso, a cominciare dal suo nome orysa da cui l’attuale nome scientifico oryza. Deriva forse da Orissa nel golfo del Bengala in India: una zona paludosa che è proprio tra i maggiori centri per la coltivazione del riso. Anche l’arrivo del cereale in occidente come prodotto di consumo è avvolto nelle nebbie. Non lo conoscevano in Egitto né in Palestina, dal momento che non è menzionato né nel Vecchio né nel Nuovo Testamento.

Furono i soldati di Alessandro Magno a portarlo in Grecia. I Romani sapevano della sua esistenza, ma lo consideravano una spezia e lo importavano tramite i mercanti. Era evidentemente costoso ed alla portata solo di alcune categorie di persone che potevano spendere: le matrone lo usavano per fare delle creme in grado di rendere la pelle morbida e luminosa; oppure serviva da sostegno per le salse e come farmaco sotto forma di decotti ed infusioni.

Risotto con tartufo.

Poco si sa della coltivazione del riso durante i secoli medioevali. Probabilmente, furono gli Arabi quando invasero l’Andalusia e trasformarono le zone verdi in risaie a dare inizio a questo tipo di coltura. Forse furono i Crociati, altri parlano degli orti dei conventi del napoletano in cui, inizialmente, il riso era coltivato sempre per uso farmaceutico (data la fama acquisita dalla scuola medica di Salerno). Altri parlano della Serenissima, che lo avrebbe importato ma non avrebbe dato seguito alla coltura sul suo territorio, considerato il carattere dei Veneziani più portati al commercio ed agli affari che alle coltivazioni.

Si parla di riso ufficialmente nei registri dell’ospedale S. Andrea di Vercelli nel 1250, mentre, nel libro dei conti di casa Savoia, viene acquistato per preparare dolci. Antimo, che seguì il giovane Teodorico da Bisanzio a Ravenna, aveva parlato di Oriza nel libro De observazione ciborum del V secolo d.C., scrivendo che faceva bene alle persone sofferenti di dissenteria.

Mastro Martino nella seconda metà del XV secolo, nel libro De arte coquinaria, parla di un riso all’italiana: «… Piglia pignata he mettice brodo grasso he magro he fa bullire he poi piglia lo riso bene nettato e mettilo dentro he fai bullire menando con un cughiaro alcuna volta che non se apichi alla pignata. Poi quando sera cotto piglia ova he caso gratato sbatuto ogni cosa insieme cum uno poco di pipere poi fa le scutelle». Assomiglia vagamente ad un risotto ante litteram.

Mastro Martino cita anche un riso in latte di mandorla, che ha qualche aggancio evidente con la specialità descritta nel bellissimo libro La cucina dei pellegrini, scritto da Marina Cepeda Fuentes. Con la ricetta bianco mangiare di riso (senza latte di mandorle) l’autrice spiega: “Si tratta del celebre bianco mangiare delle corti e dei monasteri, che si poteva anche preparare con la farina di riso solo nei luoghi dove il prezioso cereale era giunto”.

Bartolomeo Scappi parla di minestra di riso alla damaschina, realizzata con riso cotto con grasso e con poco liquido poi portato in tavola con le carni cotte a parte di castrato, di cappone di schiena di vitello, di piccioni!

Cristoforo Messisbugo (prima metà del XVI secolo) parla di riso alla turchesca cotto nel brodo grasso e condito con formaggio duro, tuorli d’uovo e zafferano. Non si tratta, comunque, di un archetipo di risotto in quanto il risotto necessita di un riso, potremmo dire moderno, e di un soffritto che non compare mai nei ricettari antichi.

Bartolomeo Stefani parla nel suo libro Arte di ben cucinare di polenta di riso e bianco mangiare per i giorni di vigilia. Il riso fa sicuramente il suo ingresso nel nostro territorio alla metà del 1400, con la presenza degli Aragonesi a Napoli; è da qui che inizia il suo percorso verso il nord. Data importante e fondamentale è il 1475, perché risulta che il duca Gian Galeazzo Sforza donò al duca di Ferrara un sacco di riso, definito “alimento estremamente interessante e meritevole di essere coltivato”. Ebbe inizio, allora, la coltivazione del riso nel nord della penisola, più votato per la facilità di trovare fiumi alimentati da sorgenti perenni con acqua abbondante e clima fresco, consono alla crescita di tale cereale. Ma come sempre avviene, con le cose che non si conoscono a fondo, tale cultivar venne messo sotto accusa e considerato fonte inquinante dell’aria e mezzo di diffusione della malaria. Tra il Cinquecento e l’Ottocento fu condotta una aspra lotta tra coloro che vedevano nella risaia il mezzo capace di bonificare le zone paludose e coloro che sostenevano che portasse malaria.

Occorre ormai parlare di riso in tavola non prima di avere ricordato come, secondo un aneddoto, venne preparato per la prima volta, per scherzo, il risotto alla milanese, che nacque nel 1574, in occasione delle nozze della figlia del maestro vetraio della fabbrica del duomo di Milano Valerio di Fiandra. Soprintendeva alla preparazione dei piatti il cuoco Bettolin del prèt (Bettolino del prete), il quale si lasciò convincere da un aiutante di ser Valerio ad aggiungere un pizzico di polvere di zafferano (usato per colorare le vetrate) al riso. Il successo fu immediato sia per il bel colore che per il sapore. Questa è la storia romanzata del risotto alla milanese che sarà poi reso ricco e prezioso dalla presentazione che ne farà in seguito, verso gli anni Ottanta del secolo scorso, Gualtiero Marchesi. Dopo averlo preparato con tutti i crismi, condito ed impiattato, vi appoggerà nel centro un foglio quadrato di oro impalpabile esattamente del tipo che viene utilizzato per dorare le cornici. Con questa presentazione non solo lo renderà bello da vedere, ma si rifarà anche a quella tradizione rinascimentale che voleva come decorazione sui piatti, pronti per essere gustati, delle lamine di metallo sottilissime, poiché i metalli, secondo la farmacopea del tempo, avevano anche una funzione di medicamento.

Il riso oggi

Ma iniziamo a parlare del riso come è giunto ai nostri giorni. Dopo averlo importato sul territorio nazionale sono state fatte, nel corso degli anni, delle selezioni e delle sperimentazioni di genetica vegetale che hanno portato ad un alimento perfetto ed adatto soprattutto alla nostra cucina, partendo dall’antipasto per arrivare al dolce ed al gelato. La Oriza Sativa ha come sottospecie la Indica — coltivata soprattutto in India, da cui derivano il Basmati e il Long Thai — la Lavanica dell’Indonesia e la Yaponica, che ci dona tutte le varietà italiane come il Baldo S. Andrea, Roma, Carnaroli e Vialone nano, da cui nascono i piatti tradizionali della nostra cucina come risotti e minestre. Qualità di riso particolare sono il Basmati dai chicchi sottili e profumati, il Venere o riso nero di grande effetto ed il riso selvatico dell’America Settentrionale, non un vero riso ma dal gusto gradevole.

Il sushi, una preparazione sempre a base di riso di origine giapponese.

Dal punto di vista merceologico si classificano i vari tipi di riso e la classificazione comporta un uso particolare del prodotto. In Italia la trentina di varietà più diffuse viene divisa in quattro diverse categorie merceologiche, che in nessun modo, però, rappresentano una scala di valori qualitativi:

  1. tondo,
  • fino,
  • semifino,
  • superfino.
  • Il comune o riso tondo ha chicchi piccoli e tondeggianti. Cuoce in 12-13 minuti e durante la cottura tende a rilasciare amido, il che lo rende adatto alla preparazione di minestre in brodo, timballi e dolci. Le varietà più conosciute sono Auro, Balilla, Originario, Pierrot, Raffaello, Rubino e Selenio (il Balilla in particolare viene utilizzato per il riso soffiato e se ne esporta tantissimo a questo scopo).

    Il riso medio o semifino, i cui chicchi sono tondeggianti, semiallungati e di media grandezza, ha una buona capacità di rilasciare l’amido: ciò fa sì che si presti alla preparazione di minestroni, supplì, timballi e risotti in cui è prevista la mantecatura, nella tipica preparazione “all’onda”. Cuoce in 13-15 minuti. Tra le varietà si segnalano l’Italico, il Lido, il Maratelli, il Padano, il Romeo, il Rosa Marchetti e il Vialone nano.

    Il riso fino è ottimo per timballi e supplì; i suoi chicchi sono affusolati e lunghi. Cuoce in 14 minuti ed è molto apprezzato per la sua estrema versatilità in cucina. Le varietà sono l’Ariete, il Cervo, il Drago, l’Europa, il Loto, il Razza 77, URB, il Ribe, il Ringo, il Rizzotto, il Sant’Andrea, lo Smeraldo e il Veneria.

    Il riso superfino, dai chicchi grandi e molto lunghi, tiene bene la cottura e rilascia pochissimo amido, tanto da lasciare acqua di cottura quasi limpida. Per questo è indicato nella preparazione di insalate e di piatti come la paella, in cui i chicchi debbono rimanere ben sgranati, ed è perfetto per risotti. Tra le sue varietà si contano l’Arborio, il Baldo, il Carnaroli, il Corallo e il Roma. Tramite un particolare tipo di lavorazione, poi, si ottiene il riso parboiled che, grazie al processo di parboilizzazione (precottura), è più ricco di sostanze nutritive, mantiene a lungo la cottura e si presenta con chicchi consistenti e ben sgranati.

    In Italia, siamo all’avanguardia nella coltivazione di tale cereale ed ai consumatori è stato consegnato un prodotto per la preparazione del risotto in grado di fare emergere il top della nostra cucina. E poi, è doveroso dirlo, il nostro riso è versatile e non fa storie!!! Gli va bene di tutto. Si accompagna senza arricciare il naso, cercando di far fare bella figura, ai più disparati condimenti ed a qualunque tipo di ingrediente gli venga imposto: sia esso dolce o salato, caldo o freddo, crudo o cotto, carne, pesce o verdura. Forse qualche malumore lo avrà probabilmente provato quando, in piena nouvelle cuisine, gli hanno imposto le peggiori angherie mettendolo accanto ai fiori e alla frutta. Ha sopportato da buon orientale con fatalistica rassegnazione, ma finalmente qualcuno ha capito che si doveva spezzare una lancia in suo favore, cucinandolo come la tradizione degli ingredienti più radicati nel nostro territorio richiedevano ed abbandonando certe stupide mode effimere.

    Davide Paolini sostiene che siamo i maestri del risotto: secondo lui, il risotto è un piatto impregnato di Cultura con la C maiuscola. Che il nostro Risotto sia un piatto di eccellenza lo afferma un cuoco del calibro di Escoffier. Cuciniamo il più interessante piatto di riso, il risotto appunto, che in ogni angolo del paese viene preparato con i tipici prodotti locali tanto da poterci permettere di percorrere, attraverso le differenti proposte territoriali, un viaggio eccezionale, in grado di mettere a fuoco la nostra Italia con le sue sfumature di sapori e con l’uso di ingredienti che vanno dai più poveri come le erbe selvatiche ai più ricchi come tartufi, funghi, frutti di mare: un itinerario affascinante che ricorda le differenze climatiche ed anche sociali del Bel Paese. Il risotto è stato anche fonte di ispirazione di due insigni letterati: Pascoli gli ha dedicato una poesia, e Carlo Emilio Gadda lo ha reso l’interprete principale in un memorabile brano dove spiega, con vera passione da gourmet nei vari passaggi, il rito della sua preparazione.

    Metodi di preparazione

    Come si cucina il riso?

    Bollito (80 g circa a persona): si mette in acqua a bollore e salata; il fuoco sotto deve essere continuo e dolce.

    A vapore usando i particolari cestelli in bambù o in metallo forato, dove l’acqua sottostante deve essere precedentemente aromatizzata con le verdure tipiche del brodo quali carota, sedano, cipolla; oppure con le spezie, come si fa in Oriente, dove mettono cumino, coriandolo e cardamomo.

    Il riso pilaf, invece, si prepara facendo prima rosolare la cipolla nel burro; dopo avere aggiunto il riso si mescola, vi si versa l’acqua e, appena nella casseruola alza il bollore, si pone nel forno. E questo tipo di cottura è il più utilizzato in quelle moltissime parti del mondo in cui il riso ha la funzione quasi di pane, dal momento che viene servito come contorno adatto ad accompagnare ogni specialità portata in tavola a base di carne, di pesce o di verdura.

    Il risotto e altri piatti a base di riso

    Che cosa è il risotto? Un piatto a base di riso cotto in poco brodo e in sughi liquidi, dopo essere stato prima soffritto nel burro con un battuto di cipolla. La padella deve essere a base larga e di un metallo che trasmetta bene il calore. Il riso deve essere quello adatto ai risotti: Carnaroli, Baldo, Vialone, Vialone Nano. La cipolla deve essere tritata finemente e non diventare una poltiglia magari bruciacchiata; per il soffritto in alcune ricette viene usato il burro, in altre l’olio, specie per il risotto di pesce nel quale si può fare dorare uno spicchio d’aglio.

    La tostatura del riso deve avvenire a fuoco moderato, ma senza che la cipolla si bruci: quest’operazione serve a fare perdere umidità al riso in modo da potere assorbire successivamente il condimento. A questo punto, viene aggiunto in molte ricette il vino che deve evaporare, cioè scomparire, depositando le sfumature del suo sapore.

    Il brodo, possibilmente di carne e fatto come Dio comanda, va incorporato poco alla volta ed alla fine — dopo averlo ben rimescolato e coccolato a fuoco basso — quando è cotto, prima di essere portato in tavola, bisogna dargli una consistenza morbida e cremosa: va mantecato cioè mescolato fuori dal fuoco delicatamente dopo avervi incorporato del burro freddo e, nella nostra terra, del parmigiano reggiano grattugiato. Naturalmente nel corso della cottura si sarà provveduto ad aggiungere i vari ingredienti o cotti in precedenza o crudi, a seconda del tipo di sapore che si intendeva dare al risotto.

    Addentrarsi nei meandri del risotto diventa una avventura. Ogni regione ha il suo e magari lo si trova con lo stesso nome in più luoghi.

    La “paniscia” è una specialità del novarese con i fagioli molto ricca di ingredienti, che non va confusa, però, con la “panissa” del vercellese molto più semplice.

    Del riso in cagnone, ad esempio, ne esistono ben tre versioni: una lombarda, una ligure ed una piemontese. In quella lombarda, il riso va lessato in acqua salata, scolato, condito con del parmigiano e del burro fino a diventare, con 4 foglie di salvia ed uno spicchio di aglio poi tolto, di colore nocciola. La versione ligure prevede di lessare a metà cottura il riso e poi trasferirlo in un tegame nel quale sia stata sbriciolata e cotta una salsiccia con concentrato di pomodoro e fondo bruno: dopo averlo incessantemente rimescolato, va aggiunto il parmigiano. La preparazione piemontese del “risotto in cagnone”, infine, prevede che il riso lessato vada condito con fontina e burro sempre di colore nocciola.

    Uno dei risotti più noti negli anni Sessanta è stato in assoluto quello proposto da Bergese nel suo ristorante di Genova. Ad una persona che aveva avuta la possibilità di assaggiarlo ho chiesto cosa avesse di tanto speciale e così ho saputo che questo grande chef, quando preparava gli arrosti, conservava gli intingoli, che usava per riempire con qualche cucchiaiata quelle piccole buchette formate nel piatto di riso solo bollito che portava in tavola. Si ha notizia di tale specialità anche dalla guida Gallo sesta edizione, visto che Flavio Ghigo — vincitore con il suo “risotto mantecato al mio fondo bruno’’ — dice che si è rifatto, alleggerendolo, al riso andato ora in disuso proposto nelle valli cuneesi, che veniva appunto bollito e successivamente mangiato o con la bagna cauda o con il sugo d’arrosto (esattamente come proponeva Bergese).

    Un altro risotto, che a suo tempo ha fatto epoca, è quello proposto dai Cipriani padre e figlio, il primavera fresco, fatto con numerose verdure di stagione. Adesso sembra tutto ovvio, ma fu un vero successo, tanto da essere esportato anche negli Stati Uniti.

    Massimo Alberini a proposito dei risotti, fa una grande distinzione: si debbono definire tali quelli che si mangiano con la forchetta, mentre sono da considerarsi minestre quelle, come i famosi risi e bisi veneziani, che si mangiano con il cucchiaio.

    Non vanno poi dimenticati gli arancini di riso siciliani, i supplì romani detti al telefono, quando nell’interno vi è la mozzarella che si scioglie e fila, le frittelle dolci (una squisitezza presente nella cucina di tante regioni) e quelle realizzate con i risotti o le minestre avanzate: vere bontà insieme al risotto al salto.

    Una menzione a parte meritano le insalate di riso diventate ormai, nel mondo moderno con i tempi stretti di chi lavora fuori casa, un’alternativa anche al panino consumato al bar. L’insalata è ormai presente come risorsa consolidata, per la possibilità di prepararla con anticipo e con gli ingredienti preferiti, in tantissimi menu. Il riso in insalata non fa mai storie sugli ingredienti che gli vengono di volta in volta proposti, ben si adatta con grande successo di sapore a qualunque situazione e si lascia condire pure a seconda delle stagioni con olio, con maionese, con erbe profumate e con tutto quello che si desidera.

    Altra grande gamma di piatti con il riso è costituita dalle verdure ripiene ed dal famosissimo sushi giapponese.

    Per quel che riguarda i dolci c’è solo l’imbarazzo della scelta. Torte con il riso e budini se ne trovano in quasi tutte le regioni. A Bologna ne viene preparata una chiamata “torta degli addobbi”, a Modena ogni famiglia ha la sua ricetta e la presenza del liquore Sassolino nel ripieno è quasi di rigore.

    Vorrei aggiungere due specialità che hanno fatto e fanno storia: la “bomba di riso”, tipico piatto di Parma e Piacenza e il “sartù” della cucina napoletana.

    Nell’allestimento dei banchetti, veniva chiamato surtout (sartù: sformato eccezionale di riso, dal francese surtout, che sta sopra tutto), una composizione di cose finte realizzata ed appoggiata nel centro della tavola e costituita da una alzata preziosa sulla quale appoggiavano varie decorazioni; si comprende allora come la parola “sartù” sia collegata ad una specialità da mangiare che deve indicarne una al di sopra di tutte le altre. Quando a Napoli arriva il riso e lo si considera il migliore alimento fino allora assaggiato, si incominciano a preparare dei timballi che hanno come ingrediente principale tale cereale con vari strati sovrapposti sia di verdure che di carni. Nell’oggi in tavola, dopo l’evoluzione avvenuta nell’arco degli anni, nelle ricorrenze importanti viene spesso riproposto nelle famiglie napoletane questo piatto ricco dei profumi della terra in cui è nato. Il sartù è un timballo cotto al forno in cui il riso è prima bollito per pochi minuti e poi condito con il tipico ragù alla napoletana: viene messo nello stampo facendone una camicia e poi il suo cuore viene farcito con mozzarella, polpettine di carne, piselli, fegatini, uova sode. Un vero primo attore della tavola napoletana anche se lungo, molto lungo da preparare.

    Diverso come ingredienti, ma sempre monumentale, è la bomba di riso realizzata con un ragù delicatissimo, ottenuto cucinando i piccioni che abbondavano ed abbondano tuttora nelle zone del parmense. Queste due ultime spettacolari specialità portate in tavola danno grande gioia ai commensali, ma raramente si trovano nei ristoranti, perché o un gruppo di persone le ordina per il proprio tavolo, altrimenti diventa difficile sporzionarli.

    Voglio terminare parlando di un fatto avvenuto nei primi anni del Novecento dopo l’unità d’Italia: un gruppo di parmigiani residenti a Roma sentì il desiderio pungente di potere mangiare, anche lontano da casa, la bomba di riso che avevano tentato invano di insegnare agli osti romani. Partito uno del gruppo per Parma, prima di rientrare a Roma mandò un telegramma che diceva “parto con la bomba”. Siccome in quei giorni gli anarchici si davano un gran da fare seminando bombe in varie città, la questura di Roma si mise in allarme avendo avuta la segnalazione di tale messaggio e solo quando la polizia di Parma ritelegrafò, dicendo “chiamasi bomba un piatto della cucina parmigiana”, tutto venne chiarito.

    Questo a dimostrazione di quanto importante sia la cucina: in suo nome si possono fare anche delle guerre!

    Clara Scaglioni



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