È il 1994, esce il tuo album di debutto a nome Cornershop e in copertina c’è un bambino dentro una cesta per i panni, che indossa occhiali da sole ed esibisce una confezione di pollo disossato e spellato. C’è già abbastanza materiale per almeno una storia, ma aggiungiamo qualche particolare mentre comincia a girare il 33 giri sotto la puntina. Siamo a Leicester, UK, quando due fratelli di origine indiana, Tjinder Singh alla voce e Avtar Singh al basso, insieme a David Chambers (batteria) e Ben Ayres (chitarre, tastiere e tamburo) si uniscono per dare corpo ad una band che interseca sonorità asiatiche a britpop e indie.
Culture diverse che generano una commistione in cui non sai dove comincia una componente e finisce l’altra.
Prendiamo per esempio il “Tikka Masala”, un pollo marinato arrosto immerso in salsa al curry che, nella sua apparente semplicità, di fatto è tra i piatti più diffusi al mondo, soprattutto in Inghilterra dove la cultura indiana è radicata e popolare tanto che qualcuno insiste nel dire che questa pietanza abbia avuto origine proprio nel Regno Unito invece che in Asia. La sua diffusione in UK sarebbe legata all’immigrazione dall’attuale Bangladesh, allora Pakistan orientale, negli anni Sessanta. Secondo diversi storici del cibo la ricetta pubblicata nel 1961 all’interno dello Shahi Chicken Masala della chef Balbir Singh è il prototipo del Chicken Tikka Masala.
Ciò che è certo è che polli e galline per questo piatto non mancano né in India né in Inghilterra, rispettivamente con due razze autoctone come la Moroseta e la Combattente indiano. Quest’ultima, oggi chiamata Cornish, ha origine in Cornovaglia incrociando polli di razza Assel (Asyl), Vecchio Combattente nero a petto rosso e Malese, tutti avicoli di dimensioni importanti e che ben si prestano alla produzione di carne.
Chissà quanto pollo sarà stato comprato dai ragazzi dei Cornershop che decisero di celebrarlo inserendolo sulla copertina di “Hold On It Hurts”. Questo è un disco che si apre rumorosamente con Jason Donovan / Tessa Anderson, percussiva e distorta, la voce in mezzo che si impasta al resto mentre canta l’insofferenza per come le persone prendano a modelli personaggi televisivi fino a voler loro assomigliare.
Continua sullo stesso stile, ma aggiungendo intro e stacco a metà brano di sacralità indiana, Kalluri’s Home, mentre si emancipa la successiva Reader’s Wife. La critica sociale è sempre presente, ma stilisticamente prende spazio la componente asiatica, con sitar e ritmica assecondati dalla ripetitività della melodia.
Cosa mostriamo e cosa nascondiamo nel desiderio di apparire, usando come simbolo una celebre rivista erotica amatoriale: Change marca ancora di più l’accento e si batte irriverente e distorta.
Distorsione che veste un apocalittico sermone cattolico su cui si sviluppa la cupa Inside Rani, in mezzo a chitarre trascinate dove si cita Last Christmas dei Wham! all’interno di poche caustiche righe.
Singolo importante all’interno del disco e prodromo del futuro successo della band è Born Disco Died Heavy Metal, che mette in risalto l’abilità con cui la scelta melodica arrangiata con componenti contemporanee e gusto orientale risultano perfettamente indie e pop insieme.
Sterza tutto sulla tradizione Counteraction, un raga in lingua originale in cui si sentono anche spari durante lo sviluppo della scala armonica, suggerendo ancora una componente di critica sociale.
Radicata perfettamente invece nella contemporaneità degli anni Novanta Where D’U Get Your Information, è un’ossessiva canzone britannica, dove qualche nota di sitar prova a farsi spazio ma conta poco in un crescendo di interrogativa distorsione.
Alternanza stilistica che sembra chiudere un triangolo cominciato due brani prima nello spoken word inglese su raga indiano di Tera Mera Pryar, surreale unione della tradizione popolare grazie all’utilizzo del dramma turco come titolo del brano è il tragico racconto di alienazione che si svolge in lingua inglese.
Il resto del lato B, quasi la metà, è impiegata da You Always Said My Language Would Get Me Into Trouble, un mantra schizofrenico che si sfoga per poi quietarsi ed esplodere di nuovo. Una strana e affascinante commistione di sensazioni stilisticamente legate alle due decadi precedenti, in totale asincronia con titolo e testo e per questo estremamente straniante. Come a esplicare in modo ancora più chiaro che il concetto che l’intreccio di componenti anglofone e indiane fin qui ascoltate possa concernere una tensione soprattutto nel contesto di provincia all’interno dell’Inghilterra di quegli anni.
Ciò che emerge al termine di questo ascolto è che c’è la sensazione di una band che si diverte a suonare, che ama il ritmo dei bassi da ballare, tanto quanto i frammenti atonali di chitarra e la strumentazione tradizionale indiana.
Sicuramente suonavano diversamente da qualsiasi altra cosa pubblicata all’epoca e i Cornershop non ebbero particolare successo con questo album, ma crebbero già con quello successivo ed esplosero con When I Was Born For The 7H Time, tre anni dopo, nel 1997.
Capaci di influenzare non solo la musica indipendente, ma anche quella dance, godranno di tardiva popolarità anche gli album precedenti, compreso questo Hold On It Hurts, che rileggeranno in chiave easy listening pubblicando Hold On It’s Easy, a dieci anni di distanza dalla sua pubblicazione.
Giovanni Papalato
Per abbonarti a una nostra Rivista o acquistare la copia di un Annuario