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Storia e cultura

Gli Estensi tra potere e splendore

di Casini C.

La tendenza ad approntare lussuosi convivi, espressione della prodigalità dei principi, risale al Quattrocento ed è attestata in varie zone d’Italia ed Europa. A Ferrara, nel 1473, Ercole I d’Este, in occasione delle nozze con la principessa Eleonora d’Aragona, figlia di Ferdinando I, re di Napoli, organizzò una festa memorabile in cui ebbero luogo tornei e spettacoli con giocolieri, cantanti e suonatori, quasi una traduzione visiva dell’atmosfera incantata dell’Orlando Innamorato del Boiardo, in cui la ricerca del meraviglioso, del magico, dell’amore e dell’eroismo era intesa ad appagare i sensi e la mente. Per l’occasione fu progettato un sontuoso servizio d’argento, impreziosito da smalti e dorature e da rilievi con l’immagine di delfini, satiri, aquile e cornucopie.

Sempre lo stesso duca, nel 1497, inaugurò la stagione del banchetto teatrale, allestendo per il Giovedì Santo un apparato scenografico volto alla celebrazione della ricorrenza, proponendo l’immagine di un sovrano devoto e attento alle necessità dei sudditi: Per l’occasione tutto il popolo fu invitato ad assistere al banchetto: furono allestite quattordici tavolate e una mensa principale, occupata da sole tredici persone, un sacerdote e dodici poveri, esplicita raffigurazione di Gesù e degli apostoli.

Gli indigenti accolti nel palazzo furono 151, ai quali si aggiunsero otto indiani, e tutti furono serviti dal duca in persona e dalla regale famiglia. I commensali prima si lavarono le mani con l’acqua profumata contenuta all’interno di recipienti d’argento, quindi poterono gustare pietanze a base di pesce e dolci.

Per cominciare furono posti sulla tavola focaccine, pane bianco, vino bianco e frittelle: al termine dell’antipasto vennero servite orate, schinali (schiene di pesce sotto sale), cefali accompagnati da vino rosso, quindi riso mescolato al latte di mandorle e abbondantemente coperto di zucchero, pesce lessato di grosse dimensioni, in particolare lucci del Po e storioni. Le portate, a questo punto, arrivarono a comprendere pesce arrosto e, soprattutto, tinche, anguille, trote e pesci di mare; infine furono serviti frutta in abbondanza (fichi, mandorle ed uva passa) e confetti di zucchero da gustare insieme al vino.

Al termine di questo pranzo sfarzoso, prevalentemente a base di pesce, come si conveniva alla solennità del Giovedì Santo, alcuni servitori portarono gli avanzi fuori dal palazzo per nutrire i molti poveri che si erano presentati per assistere all’evento. Se la parte riservata al cibo poteva dirsi conclusa, non così l’aspetto cerimoniale: il duca e la corte, infatti, si vestirono con tuniche bianche ed eseguirono personalmente la lavanda dei piedi agli invitati, utilizzando acqua profumata contenuta in recipienti di bronzo e di rame, mente cantori fiamminghi intonavano testi sacri e musica polifonica.

Il banchetto divenne una vera e propria manifestazione teatrale di potere, cultura e ricchezza solo a partire dal XVI secolo con il famoso convivio organizzato dal principe Ercole nel 1524, futuro duca Ercole II, per il padre Alfonso I, la zia Isabella Gonzaga, il fratello cardinale Ippolito e la moglie Renata di Francia, figlia di Luigi XII.

La festa, alla quale parteciparono un centinaio di persone, tra cui gli ambasciatori di Venezia e dell’Impero, si tenne nella Sala Grande del castello, dove era stato allestito il primo teatro stabile della storia, diretto dal poeta Ludovico Ariosto. La scenografia in legno rappresentava una vera e propria città con case a due piani percorribili, chiese, fontane e giardini.

Gli ospiti furono prima intrattenuti dalla rappresentazione della Cassaria dell’Ariosto, probabilmente diretta dallo stesso autore: al termine della commedia i convitati si ritirarono nelle stanze del Cavallo e della Stuffa, dove alcuni suonatori cominciarono a suonare raffinate melodie, mentre nella Sala Grande venne predisposto un enorme tavolo lungo 40 metri, una credenziera per l’esposizione delle suppellettili e un’altra tavola per le bottiglie.

La mensa, ricoperta con tre tovaglie, fu adornata con fiori di seta e con figure di zucchero, alte circa 60 centimetri, raffiguranti Ercole in lotta con il leone di Nemea, una delle grandi fatiche dell’eroe ed evidente riferimento al prestigio del giovane principe Ercole.

Al suono delle trombe, i commensali iniziarono a mangiare dopo essersi lavati le mani con acque profumate da essenze floreali: subito furono serviti gli antipasti, composti da insalate di capperi, tartufi, cedri, rapanelli, carne, acciughe, grandi cefali affumicati e orate accarpionate alle foglie di alloro. Al termine, un coro di musici e di cantanti, posizionati sulla scena del teatro, allietarono i commensali: tra di loro, si esibì madonna Dalida de Putti, virtuosa del canto e amante del cardinale Ippolito.

Tutte le vivande del banchetto furono accompagnate dal canto di madrigali, da dialoghi musicali, da concerti di viole, flauti, e organi, fino a quando venne sparecchiato, levata la prima tovaglia e poste sulla mensa altre venticinque statuette raffiguranti Ercole e l’Idra di Lerna. Fecero allora la propria comparsa il Ruzzante, celebre attore e autore teatrale, accompagnato da alcuni artisti che si cimentarono nel canto di madrigali e canzoni, parlando di cose contadinesche in dialetto pavese: quindi vennero servite altre pietanze cominciando da tartufi in forma di castelli e torri, petti di fagiani in gelatina a cui seguirono dialoghi alla veneziana e bergamasca sempre eseguiti dal Ruzzante e dagli attori.

Terminata la rappresentazione ricominciò la musica, questa volta interpretata con toni più gravi, mentre i servitori si occupavano di levare la seconda tovaglia e di collocare sulla tavola venti statue di Ercole in lotta contro il toro di Creta, oltre a busti di Venere, Cupido, Marte, Saturno, ed Eva: quindi furono serviti i dolci, sempre al suono della musica. Se il banchetto vero e proprio poteva dirsi concluso, la festa continuò con un sorteggio di gioielli e mentre gli ospiti furono nuovamente condotti nella Stanza del Cavallo e della Stuffa, la Sala Grande fu ripulita per il grande ballo che durò tutta la notte: al mattino una colazione leggera pose fine al banchetto.

Alla realizzazione di questo sontuoso apparato collaborarono sia lo scalco Cristoforo da Messisbugo, valente cuoco, colto e istruito, esperto di musica e compositore di madrigali, sia il maestro musicista Alfonso della Viola, uniti nella ricerca di un effetto raffinato e scenografico in cui la melodia aveva il compito di presentare le vivande e di creare una corrispondenza di toni e di sapori.

Il gusto per il meraviglioso, inteso a creare stupore e meraviglia, arrivò al culmine nella seconda metà del Cinquecento, quando nei banchetti vennero introdotti apparati effimeri (cioè strutture architettoniche realizzate in legno o gesso e destinate ad essere distrutte al termine dell’evento), adornati da addobbi floreali e serici che trovano un riscontro perfetto nell’arte di Niccolò dell’Abate, pittore modenese attivo anche nella reggia francese di Fontainebleau, in cui la passione per la festa, la musica, la cavalleria diventa evocazione di ambienti e personaggi soffusi di magia ed eleganza.

Il duca Alfonso II fu l’interprete di questo gusto raffinato e teatrale: solo per fare un esempio, in occasione delle sue nozze con Lucrezia de’ Medici, il soffitto della sala, dipinto d’azzurro, si aprì improvvisamente e dalle nubi venne calata la dea Flora che al suono della musica intonò endecasillabi, mentre con le mani gettava fiori di seta sugli ospiti increduli e ammirati. La magnificenza del duca viene evidenziata da un aneddoto riportato da un cronista seicentesco, secondo il quale una sera si presentarono a Ferrara alcuni ambasciatori imperiali e francesi che vennero accolti con tutti gli onori; il giorno successivo il duca invitò a pranzo gli illustri ospiti i quali rimasero stupefatti allorquando si accorsero che la servitù era solita gettare fuori dalla finestra, dopo ogni portata, i bacili e le suppellettili d’argento. Il rituale nascondeva in realtà l’accortezza di Alfonso, che la notte precedente aveva fatto porre sotto l’acqua del fossato reti robuste per recuperare, in un secondo momento, i preziosi oggetti.

I protagonisti

Se i destinatari degli eventi spettacolari rimanevano il principe e i nobili convitati, la regia degli avvenimenti spettava ai maestri di palazzo ed in particolare allo scalco. Non si trattava di un semplice cuoco, ma di un vero e proprio funzionario con compiti amministrativi, inerenti l’approvvigionamento, il mantenimento della corte, dei servitori e degli animali da diporto e di servizio. Si trattava di una posizione importante, ricoperta anche da Leonardo da Vinci alla corte milanese di Ludovico il Moro. In occasione delle grandi festività lo scalco diventava anche coreografo e per questo motivo, oltre ad uno spiccato gusto artistico, doveva essere un uomo colto, una caratteristica ritenuta fondamentale dall’esigente corte ferrarese. Il più illustre tra questi maestri di palazzo fu certamente Cristoforo da Messisbugo, istruito nelle arti, cuoco innovatore e superbo regista di sensazionali banchetti, eletto alla dignità di conte palatino dall’imperatore Carlo V per le sue doti non comuni. Il Messisbugo si rivelò assolutamente originale nella preparazione dei piatti, moderno e attento alle influenze estere, francesi, catalane, ma anche tedesche e inglesi, in grado di cogliere le eccellenze della cucina italiana, come il riso importato da Salerno, i vermicelli e i maccheroni.

Il festino allestito a Belfiore nel 1529 e voluto dall’arcivescovo di Milano, Ippolito d’Este, in onore del fratello Ercole e di Renata di Francia offre un’idea della creatività di Cristoforo: gli invitati furono condotti in sala da musici e ballerini che continuarono ad esibirsi mentre gli illustri ospiti si lavavano le mani e cominciavano a consumare le insalate. Le portate includevano pastelli di trote, uova sode alla francese, latte di storione, orate, pizze alla catalana, milze di luccio, minestra d’amido, piccoli pesci del Po, storione lesso, pesci fritti conditi con succo d’arancia, cannella e zucchero, pastelle di anguille, lucci fritti coperti con confetti di anice, fette di storione cotte sulla brace e quindi insaporite con prezzemolo e potacchio di seppie alla veneziana; il tutto alternato a danze, concerti e rappresentazioni teatrali. Al termine, una musica polifonica con sei voci diretta da Alfonso della Viola pose fine a questo pranzo “privato” il quale, proprio perché riservato a pochi intimi, mostra tutta la raffinatezza raggiunta dalla famiglia estense.

Accanto alla figura dello scalco, nei trattati del Cinquecento, molto attenti alla forma e ai rituali cortesi, viene nominato il trinciante. Si trattava di un nobile, quindi non un vero e proprio servitore, preposto al taglio delle carni, del pesce e della frutta. Se nel Medioevo quest’azione era riservata al signore perché percepita come una manifestazione di forza, nel Rinascimento cominciò ad essere considerata potenzialmente offensiva nei confronti degli ospiti, dal momento che veniva considerato quantomeno poco opportuno il maneggiare armi durante feste e banchetti. Nel 1520 Giovanni Francesco Colle scrisse il Refugio del povero gentiluomo, dedicato proprio al trinciante, esponente della nobiltà decaduta e impoverita, ma non un suddito o un servitore comune. Questa figura doveva qualificarsi come un vero e proprio cortigiano, capace di dissimulare la perizia tecnica sotto il garbo e la naturalezza, in grado di svolgere un vero e proprio rituale quotidiano che prevedeva riverenze, una postura dritta, un’espressione lieta del volto, non deformato da alcuna smorfia. In più, nello svolgimento delle proprie funzioni, il trinciante doveva ragionare con il principe riguardo agli alimenti e ai loro effetti sul corpo umano, mostrando di intendersi sia di medicina che di filosofia.

La preparazione del banchetto e i servizi da tavola

Oltre allo Scalco, al Coppiere e al Trinciante, l’organizzazione del banchetto dipendeva anche dal Maestro Camerario, il cui compito era quello di passare in rassegna gli appartamenti ducali prima dell’arrivo degli illustri ospiti per controllare lo stato dei mobili, delle tappezzerie, per sostituire, portare a rammendare stoffe rovinate e per togliere dai bauli i tessuti pregiati necessari per decorare il palazzo e la sala del banchetto: tovaglie di velluto cremisi con fregi d’oro e d’argento, arazzi e panni d’oro, corami dorati e argentati di manifattura italiana e spagnola, ma anche tappeti destinati ad essere collocati lungo le vie della città per ricevere degnamente personaggi di riguardo, come sovrani e papi. Oltre alle stoffe preziose e agli addobbi floreali sulle tavole imbandite, sulle credenziere e sulle bottigliere venivano esposti preziosi servizi d’argento, maioliche di Faenza, oggetti in materiali preziosi come l’avorio, l’agata, il diaspro, i cristalli e i lapislazzuli.

La dispensa del principe

Dalle opere del Messisbugo si traggono importanti informazioni sulla disponibilità giornaliera degli alimenti necessari alla corte ducale nel tempo ordinario individuata in 50 kg di pane, 124 kg di carne, 280 litri di vino, spezie comuni come la maggiorana, il basilico, la salvia e l’alloro, ma anche odori preziosi come la cannella, il pepe, lo zenzero, il garofano, la noce moscata e lo zafferano; era previsto anche l’apporto di una grande quantità di pesce, necessario per i giorni di “magro” (57 kg al giorno solo di pesce d’acqua dolce), ma anche per i convivi solenni. A questo proposito, lo Scalco ducale elenca nei banchetti una sorprendente varietà ittica: storioni, ladani, porcellini di mare, trote, carpe, alose, lucci, tinche, persici, lamprede, temoli, gamberi, rane, lumache, testuggini marine, cavedani, branzini, rombi, orate, dentici, triglie, cefali, volpine, sgombri, ghiozzi, sogliole, anguille, calamari, seppie, salmoni, tonno, tarantelli (ventresca di tonno in salamoia), schinali, caviale fresco, granchi, ostriche, capesante e molluschi vari. Una nota curiosa è quella riferita ai polpi, alle razze e ai pescecani, da evitare assolutamente perché considerati dagli Estensi come un cibo da galeotti.

Cristina Casini


Bibliografia

AA.VV., A tavola con il Principe, Ferrara, 1988.

 


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