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Le razze bovine in un trattato del 1903

di Gaddini A.

Il trattato “Razze bovine, equine, suine, ovine e caprine” di Ferruccio Faelli, pubblicato nel 1903 dall’editore milanese Ulrico Hoepli, è un testo che ha avuto una grande importanza per la didattica della zootecnia speciale in Italia. Il libro è stato scritto nel periodo di passaggio tra la cosiddetta Era del cavallo — in cui gli equini, soprattutto da sella, dominavano la scena zootecnica —, e quella del bovino, nella quale, con la diffusione delle automobili, il cavallo come veicolo perse interesse e la specie prevalente divenne quella bovina. La prima parte del trattato è dedicata infatti ai bovini e nella descrizione delle razze bovine si dà ancora un’importanza considerevole all’attitudine alla produzione del lavoro, visto che la meccanizzazione dell’agricoltura era ancora agli inizi.

Razze bovine
Faelli suddivide la trattazione della parte speciale in capitoli dedicati ai singoli paesi, trattati in ordine d’importanza, dei quali dà anche ampi cenni sulle condizioni climatiche e pedologiche, sulle colture praticate, e sulle modalità di allevamento del bestiame. L’autore pone al primo posto l’Inghilterra (ma di fatto si riferisce all’intero Regno Unito), identificandola come la nazione nella quale la zootecnia aveva raggiunto il suo massimo sviluppo, in tutte le specie. Sono descritte sedici razze, molte delle quali specializzate nella produzione di carne grassa, con attenzione anche alla produzione di sego, che all’epoca era molto utilizzato per la produzione di candele e saponi e come lubrificante. Nel testo, tra le razze che hanno tuttora diffusione, sono presenti la Hereford, la Angus e la Shorthorn, denominata Durham o Holderness o Teeswater, che all’epoca era una delle razze di maggior successo, frutto di un’intelligente opera di miglioramento. La Shorthorn aveva successo anche in Italia, anche se Faelli si mostrava scettico sulle sue possibilità di ulteriore diffusione nel nostro Paese, per il clima non adatto e per i bassi prezzi della carne, non remunerativi visti i costi di produzione imposti da una razza migliorata. Il medico invitava piuttosto gli allevatori italiani a lavorare sul miglioramento delle razze nazionali, per raggiungere risultati simili a quelli dei loro colleghi britannici. Alcuni paragrafi sono dedicati alle razze da latte, come la Ayrshire, la Jersey e la Guernsey, trattate come un’unica “razza delle Isole Normanne”.
La seconda nazione descritta è la Svizzera e qui si parla di due razze, la Macchiata o Pezzata, comprendente quattro sotto-razze, tra le quali la Simmenthal, di cui si sottolinea la triplice attitudine, e la razza Bruna, con tre sotto-razze. Faelli descrive in modo minuzioso gli interventi pubblici, federali e cantonali, a favore del miglioramento genetico delle razze elvetiche.
I Paesi Bassi sono rappresentati dalla razza Olandese, che in realtà comprende diverse tipologie di animali con caratteristiche ed attitudini tra loro molto diverse, chiarendo che il concetto di “razza” all’epoca era molto meno restrittivo di quello attuale. Vengono infatti citati diversi libri genealogici o Herd Book, organizzati in base alla regione e non alla razza.
Per la Francia Faelli descrive ben 31 razze, definite però d’importanza locale e poco conosciute all’estero. Molte di esse sono scomparse, come la Landaise, la Picarde e la Fémeline, mentre altre hanno invece assunto un’importanza rilevante negli ultimi decenni per la produzione di carne.
Sono descritti i bovini della razza di Guascogna, definiti “poco atti alla produzione della carne”, ma in compenso “ottimi lavoratori”, le razze Garonnaise, Agenaise o Marmandaise e dei Pirenei, tutte dal mantello fromentino chiaro, che nel 1963 sono state fuse nell’attuale Blonde d’Aquitaine, e la “razza Limosina”, allora diffusa solo in pochi dipartimenti della Francia, con bestiame “ottimo lavoratore e buon produttore di carne”, grazie anche all’opera di miglioramento a cui era stata sottoposta.
L’autore descrive poi la Aubrac, con ottima attitudine al lavoro ed all’ingrasso, e la Salers, definita anche “del Cantal”, già all’epoca rinomata per il mantello rosso carico e buona produttrice di latte. Alla Charolaise è dedicato un ampio paragrafo, in cui si ipotizza che derivi dal bestiame toscano della Val di Chiana, pur ammettendo l’assenza di prove a sostegno dell’ipotesi. Alla razza si attribuisce un’ottima attitudine alla produzione di carne, in miglioramento grazie all’attenta selezione a cui era sottoposta, e particolarmente adatta all’ingrasso al pascolo, soprattutto su erbai, tanto che “alle volte i bifolchi non riconoscono più i buoi che tenevano in custodia dopo alcuni mesi di regime all’erba”.
Dopo la Francia, Faelli passa alla Germania, descrivendo di­verse razze, quasi tutte estinte, in via di estinzione o assorbite da altre razze. Fanno eccezione razze locali, oggi a diffusione limitata, come la Angler, ma anche la razza dei polders dell’Holstein, probabile antenata della Holstein-Friesian, dal mantello bianco o pezzato nero, bruno o rosso, le cui vacche sono definite “molto lattifere”. Per la Germania è anche citata la forte presenza di bestiame Simmenthal, di origine svizzera, la cui selezione tedesca è definita migliore del bestiame originario elvetico.
Nel capitolo sull’Austria-Un­gheria si riporta una grande varietà di razze, riflesso della com­posizione variegata del vastissimo impero asburgico. La trattazione inizia con la cosiddetta razza Podolica, allevata in Podolia e Volinia, da lavoro e carne, descritta come molto primitiva, con netta prevalenza del treno anteriore su quello posteriore.
Come razza a sé stante è trattata l’Ungherese, migliorata rispetto alla precedente e particolarmente apprezzata come animale da lavoro, potente e rapido. Tra le razze austro-ungariche sono poi citate varie razze alpine, alcune estinte, come la Mürztal, altre in via di estinzione, come la Mariahof o la Tux-Zillertal, altre ancora tuttora diffuse, come la Pinzgauer e due razze la cui zona di allevamento è oggi in Italia: la Rendena, dell’omonima valle trentina, e la Etchtal (Val d’Adige, più correttamente Etschtal), in seguito detta Grigia della Val d’Adige, e oggi compresa nella Grigia Alpina.
Dopo un brevissimo accenno alle razze balcaniche, l’autore passa a descrivere quelle della Russia, con la razza delle steppe russe, definita come progenitrice delle razze podoliche, la razza Scita senza corna e la razza di Crimea.
Faelli descrive poi la razza di Svezia e Norvegia, descritta come in calo numerico.
Tra le razze del Belgio sono citate quella di Limbourg, del Nord di Bruges, di Furnes-Ambacht e delle Ardenne del Belgio, mentre per la Danimarca è citata la razza dello Jutland, oggi estinta.
L’autore ritiene che in Spagna non siano presenti razze di interesse zootecnico, citando solo quella dei tori da corrida (raza de Lidia) e quella di Cerdeña (regione divisa tra Francia e Spagna, oggi detta Cerdagna), mentre per il Portogallo sono citate nove le razze autoctone, Minhota o Gallega, Barrosâ, Arouquesa, Mirandesa, Brava o Ribatejana, Tarina (selezione locale dell’Olandese), Alentejana e Insulare (delle Azzorre e di Madeira), quasi tutte ancora esistenti e protette da denominazioni d’origine.

Le razze italiane
Per quanto riguarda l’Italia, Faelli parla di una popolazione bovina articolata in numerose razze, grazie alla diversità di ambienti, tuttavia poco migliorate e tutte a triplice attitudine. Va premesso che il concetto di razza, come ricordato in precedenza, era all’epoca molto meno restrittivo di quello attuale, e per molte regioni o zone geografiche si parla di “razza” come insieme, anche molto eterogeneo, di animali allevati sul territorio, mentre si citano delle sotto-razze, che spesso corrispondono alle attuali razze, dotate di caratteri più omogenei. L’autore segnala una forte esportazione, non dovuta però ad eccedenze di produzione, ma piuttosto ad uno scarso consumo interno, a causa della povertà, soprattutto nel Meridione.
Faelli cita una consistenza, riferita al 1881, di 4.772.162 capi bovini, su un territorio nazionale che non comprendeva il Trentino-Alto Adige e la Venezia Giulia. Considerando i dati odierni, della Banca Dati Nazionale del Ministero della Salute, sulla stessa superficie sono allevati, al 31 luglio 2017, poco più di 5.400.000 capi. Faelli lamenta lo scarso impegno, sia delle autorità che degli allevatori, nel miglioramento genetico del bestiame, che potrebbe dare ottimi risultati visto il materiale di partenza, e cita Romagnola, Piemontese, Chianina e Reggiana come razze a forte reddito e di facile ingrassamento.
Per il Piemonte l’autore descrive la razza Piemontese, con spiccata attitudine per la produzione di lavoro, latte e carne, con pesi fino a 1.100-1.200 kg, con alcuni difetti di morfologia e di appiombo. La razza era distinta in una “razza scelta della pianura”, dal mantello fromentino chiaro, e a volte bianco, e una “razza ordinaria della pianura”, dal mantello rosso, più o meno carico, con esemplari particolarmente pregevoli, in seguito a notevoli miglioramenti, nelle colline delle Langhe, che si ingrassavano molto bene, fornendo “carne squisita”. Va ricordato che la mutazione genetica che ha originato i bovini a doppia groppa detti “della coscia” era stata rilevata a Guarene, in provincia di Cuneo, nel 1886, non molti anni prima dell’uscita del trattato di Faelli.
L’autore passa a descrivere la razza di Demonte e la Canavesana, entrambe a mantello fromentino, e simili alla Piemontese, la Valdostana, dalla morfologia molto variabile a seconda delle zone, con mantelli in prevalenza pezzati, ma anche fromentini e grigi. Sono infine descritte le razze di Susa e di Pinerolo, oggi estinte.
Faelli divide la Lombardia in una zona alta ed una bassa. Nella prima non rileva alcuna razza locale, e spiega che la rimonta è affidata all’acquisto di capi di razza Schwitz alla fiera dell’omonima città svizzera o in quella di Einsiedeln, mentre i tentativi di produrre la rimonta in Lombardia, a partire dai capi svizzeri, non aveva dato risultati soddisfacenti. Per la bassa Lombardia, e in particolare per il Mantovano, è citata una razza grigia dalle lunghe corna e dal treno anteriore più sviluppato del posteriore, appartenente alla popolazione podolica diffusa dal Polesine al Padovano, con ottima attitudine al lavoro, oggetto di inutili tentativi di miglioramento per incrocio con bestiame Simmenthal.
Nel Bresciano l’autore segnala una razza di origine tirolese, ottima per il lavoro, ma anche con ottima conformazione ed attitudine alla produzione di carne; questa razza era diffusa in molte province della Lombardia e anche in Svizzera ed Austria.
L’autore deplora quindi la cattiva gestione della genetica attuata nel passato in Veneto, con incroci senza criterio di razze straniere sulle razze locali, soprattutto nella provincia di Treviso. Nel nord delle province di Verona, Vicenza, Treviso e Belluno era diffusa la razza Tirolese, nel sud delle province di Padova e Rovigo si allevava la Pugliese, di origine Podolica, con corna a lira, e si cita la razza Friulana, dal mantello rosso, con occhiaie nere, che stava scomparendo, e che a partire dal 1870, per incrocio con vari ceppi di Simmenthal, diede poi origine alla Pezzata Rossa Friulana, dal 1984 denominata Pezzata Rossa Italiana.
Infine, Faelli menziona due razze alpine, la Bellunese, da lavoro, con buona attitudine all’ingrasso, ma cattiva lattifera, simile alla Podolica, ma migliorata, e la Montanina delle Alpi venete, buona produttrice di latte, i cui bovini detti cengiaroi, erano di bassa statura.
La Liguria secondo Faelli presentava soprattutto bovini di origine piemontese, al nord, podolica, al confine con la Toscana, e reggiana, al confine orientale con l’Emilia, identificabili con la razza Pontremolese.
Per l’Emilia-Romagna si cita la razza denominata Reggiana, Parmigiana, Piacentina o Parmigiana-Reggiana, a triplice attitudine, con grande importanza come lattifera, usato per la produzione di latte per il Parmigiano-Reggiano, grazie anche all’alto tasso di grasso, 4,5-4,8%, pur con una produzione di 4.500 kg per lattazione, più bassa di quella della Olandese e della Schwitz. Si descrive poi la razza di Bardi, considerata una derivata dalla Maremmana, e la Modenese o Carpigiana, entrambe ottime lavoratrici e produttrici di carne di ottima qualità.
La razza Romagnola del piano, secondo Faelli “impropriamente chiamata Pugliese”, riconducibile all’odierna Romagnola, derivata dalla Maremmana o Romana, con ottima conformazione per la produzione di lavoro e carne. Per la Romagnola è citata la fattoria Torlonia di San Mauro (oggi San Mauro Pascoli), nell’entroterra riminese, diretta dall’ingegner Leopoldo Tosi, che esportava bovini all’estero, soprattutto in Russia. La tenuta era in passato diretta dal padre del poeta premio Nobel Giovanni Pascoli, Ruggero, assassinato nel 1867, come ricorda il figlio nella poesia “La cavalla storna” del 1903.
In Toscana, secondo Faelli, esistevano due razze, entrambe di origine podolica, la Maremmana e la Chianina, ma citava anche altre razze, che considerava comunque riconducibili alla Maremmana, quali Val di Tevere, Val di Nievole, Val di Serchio, Volterra ed altre. La Maremmana è descritta con aspetto semi selvaggio, ottima per il lavoro, poco stimata per la carne, mentre la Chianina, ritenuta derivata dalla Maremmana tramite un più razionale sistema di allevamento, era “bella, buona e mansueta” e di “aspetto gentile e vivace”, con morfologia abbastanza simile a quella attuale, anche se con tratti da carne meno spiccati, visto che aveva ancora una prevalente attitudine al lavoro. In particolare Faelli descriveva scheletro voluminoso, groppa stretta e treno anteriore più sviluppato di quello posteriore (le immagini di un toro e di una vacca di razza di Val di Chiana, che accompagnano il testo, lasciano qualche perplessità sulla fedeltà della rappresentazione, NdA). Come visto, Faelli considerava la Chianina come possibile progenitrice della razza Charolaise. Infine, si menziona la razza Nera pisana, ritenuta di origine svizzera.
Sono quindi descritte le razze dell’Umbria e delle Marche, di origine podolica, costituite da due popolazioni, della pianura e della collina. La prima aveva ottima attitudine al lavoro ed all’ingrassamento, a mantello bianco, per la forte influenza degli incroci con riproduttori chianini, tanto che, dopo un certo numero di generazioni, la razza Chianina avrebbe assorbito il tipo podolico originale. Sono segnalati animali di particolare pregio nei dintorni di Perugia.
La razza della collina, diffusa sull’Appennino Umbro-marchigiano, è invece descritta come più vicina al tipo podolico, con lunghe corna, corporatura più tarchiata rispetto alla razza di pianura, pigmentazione apicale nera e mantello grigio, a causa del quale gli animali erano detti brini, brinotti o marini, e definiti adatti al lavoro, ma difficili da ingrassare.
Per il Lazio è descritta una sola razza, indicata con il nome della regione, o anche come razza dell’agro romano, di derivazione podolica. Faelli riporta la tesi classica dell’introduzione del bestiame podolico da parte degli invasori barbarici dal IV al VI secolo, che avrebbe soppiantato il tipo primitivo romano, a mantello rosso e con corna piccole a mezzaluna. Il bestiame laziale è d’aspetto robusto e fiero, con grandi corna, treno anteriore molto sviluppato, più del posteriore, con groppa aguzza. Anche in questa razza si riferisce pigmentazione apicale nera e mantello grigio, fromentino nel vitello fino allo svezzamento. L’attitudine è per il lavoro con scarsa propensione all’ingrassamento e produzione lattea sufficiente solo per alimentare il vitello. Per Faelli la razza sarebbe suscettibile di miglioramento se solo fosse curata dagli allevatori.
L’autore passa a descrivere le razze delle regioni meridionali adriatica e mediterranea, anche in questo caso considerate di origine podolica, divise in razza scelta di pianura, razza ordinaria della pianura e razza di montagna; le prime due note anche come razza Pugliese o di Basilicata. La razza scelta era diffusa nel Casertano, in Puglia e nel Saler­nitano, con mantello bianco argenteo, taglia elevata, treno anteriore più sviluppato, discreta produttrice di latte, ma non facile ad ingrassare.
La razza ordinaria della pianura è descritta come meno migliorata della precedente, diffusa in Puglia, Basilicata, nel Casertano e nel Napoletano, con mantello tra biancastro e grigiastro, statura molto alta, lunghe corna, arti muscolosi, ma groppa stretta e cadente. Questi bovini erano resistenti al lavoro, buoni produttori di latte ma meno facili all’ingrassamento della razza scelta.
La razza di montagna è presentata come ottima per il lavoro, mediocre per carne e latte, a mantello grigio, con lunghe corna, diffusa sulle montagne dell’Avellinese e di Abruzzo, Basilicata, Calabria.
La razza bovina della Sicilia nel 1881 contava, secondo una statistica citata da Faelli, 125.396 capi (al 31/07/2017 c’erano circa 350.000 capi), con una densità di 42,8 capi per mille abitanti, la più bassa d’Italia. È descritta con mantello rosso, corna molto lunghe, forme aggraziate e temperamento vivace. Si distinguevano tre sotto-razze:
la Modicana o Sciclitana di pianura, con statura anche di 170 cm, ma con scheletro pesante,
la razza dei Mezzalini di 150-154 cm;
la razza di montagna, con altezza di 146-150 cm, facile a ingrassare, con corna ridotte rispetto alle altre e buona produttrice di latte ricco di grasso.
La razza della Sardegna, sempre secondo la statistica del 1881, contava 279.403 capi (al 31/07/2017 erano circa 265.000), con una densità di 409,6 capi per mille abitanti. La razza è descritta come molto eterogenea, tranne che sulle montagne, dove era più conforme al tipo sardo, e simile a quella dell’Appennino centrale. L’altezza al garrese era tra 120-125 cm, con scheletro poco voluminoso, mantello fromentino, spesso tigrato con sfumature brunastre, corna medio-lunghe e a forma di “s”, ottima attitudine al lavoro e scarsa alla produzione di latte e carne. Faelli cita incroci, nelle pianure più fertili dell’isola, con Schwytz, Friburghese, Siciliana e razza scelta di pianura piemontese.
A conclusione della prima parte, dedicata ai bovini, Faelli inserisce un breve paragrafo sul bufalo (definito come “buffalo”), descritto come animale da lavoro diffuso nel centro-sud d’Italia, con carne poco apprezzata, e produzione di latte appena sufficiente per lo svezza­mento del vitello. Non è menzionata la trasformazione del latte bufalino in formaggi.

Andrea Gaddini

Bibliografia
Cozzi B. (1994), Faelli, Ferruccio. Dizionario Biografico de­gli Italiani, Volume 44, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma.
Denis B. (2010), Races bovines, Castor & pollux, Chaumont, France.
Porter V. (2002), Mason’s World Dictionary of Livestock Breeds, Types and Varieties, CABI Publishing, Wallingford, UK.
Sañudo Astiz C. (2011), Atlas Mundial de Etnología Zootécnica, Servet, Zaragoza, Spagna.

Siti consultati
Ministero della Salute
Banca Dati Nazionale, http://statistiche.izs.it/portal/page?_pageid=73,12918&_dad=portal

Note
Grazie al prof. Riccardo Fortina dell’Università di Torino, Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari, per la foto del prof. Ferruccio Faelli.



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