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Storia e cultura

La terribile apparizione dell'esercito furioso nelle campagne bergamasche del Cinquecento

di Casini C.

Nell’inverno del 1517 un soldato che militava nel corpo di fanteria veneto, posto sotto il comando del conte Bartolomeo Martinengo, si ammalò di paura dopo aver assistito ad una terribile apparizione di spettri nelle campagne di Verdello. Il nobile capitano decise allora di recarsi personalmente nel luogo della visione, dove erano stati trovati alberi spezzati e strane impronte di uomini e di cavalli: un evento spaventoso, paragonabile, secondo il Martinengo, solo alla propria morte. “E videro un re dal ferocissimo aspetto togliersi il guanto di ferro dalla mano e gettarlo in aria; nello stesso momento si udì un fragoroso rumore d’artiglieria accompagnato da suoni di tamburi, di trombe e di nacchere, così come deve avvenire all’inferno. L’esercito del terribile re si lanciò contro i soldati nemici e insieme, dispiegando al vento una moltitudine di vessilli e di stendardi, diedero vita ad una crudelissima battaglia che lasciò i soldati orrendamente mutilati”.

Questa descrizione (riassunta ed adattata in italiano corrente) si trova in una lettera del 1517 scritta da Bartolomeo Martinengo nel suo castello di Villachiara, vicino a Crema, ed è conosciuta come la Littera de le meravigliose battaglie apparse novamente in bergamasca: in essa non veniva però riportato un normale combattimento tra eserciti, bensì il resoconto di una visione collettiva avvenuta a Verdello, nel bergamasco, pochi giorni prima, e precisamente il 16 dicembre. La data non è casuale perché segna l’inizio delle Tempora invernali del 1517, un periodo denso di simboli e rituali pagano-cristiani, probabilmente di origine celtica, legati al ciclo delle stagioni e alla produttività della terra.


Le guerre d’Italia


Nemmeno il fatto che questa visione di eserciti combattenti sia avvenuta a Verdello è da trascurare: nel 1509 ad Agnadello, un paese poco distante, si combatté un’aspra battaglia tra la Lega di Cambrai e Venezia nella quale furono definitivamente ridimensionate le spinte espansionistiche della Repubblica sulla terraferma: il combattimento, definito molto cruento, si inserisce nel quadro delle guerre d’Italia che insanguinarono la penisola fino al 1559 e che causarono pestilenze, carestie e devastazioni. Dalla discesa di Carlo VIII in Italia (1494), infatti, molti autori contemporanei registrarono una recrudescenza nei combattimenti, durante i quali i nemici venivano colpiti senza alcun rispetto, come fossero animali: in particolare, a partire da questa data, vennero introdotte in maniera evidente le artiglierie e i cannoni, trainati non più dai lentissimi buoi ma dai veloci cavalli.
Relativamente ai morti caduti sul campo di Agnadello, le cifre fornite dalle cronache e dalle lettere private del tempo sono differenti e spaziano da 4.000 a 14.000, dimostrando in tal modo il persistere della tradizione medievale definita “anumerica”, che tendeva ad evidenziare un fatto attraverso il ricorso a cifre improbabili. Qualunque fosse il numero dei soldati deceduti nella battaglia, certamente rimangono significative le parole di Francesco Gonzaga alla moglie Isabella d’Este, che riferì di un tale numero di cadaveri da rendere impossibile la vista del terreno.
E quello che successe ad Agnadello può valere senz’altro per molte altre località italiane, dove le cronache del tempo menzionano monti di cadaveri o fiumi attraversati passando sulle salme dei caduti. Si trattava di spoglie che rimanevano prive di sepoltura e la cui decomposizione provocava esalazioni maleodoranti e pestilenze: dopo la battaglia di Agnadello i superstiti accusarono gravi sintomi causati dall’odore nauseabondo e dall’acqua contaminata. 

Non è certamente un caso che proprio nel periodo tra la fine del Quattrocento e i primi trent’anni del Cinquecento vengano registrate diverse profezie consolatorie e visioni agghiaccianti.


L’esercito furioso

Per tornare all’evento specifico di Verdello, come riferisce il Martinengo, alcuni testimoni raccontarono di aver assistito ad una battaglia nei cieli tra due eserciti opposti, uno capeggiato da quattro o cinque condottieri, l’altro da un terribile re. Una dichiarazione posteriore, datata 4 gennaio, descrive nello specifico alcuni resoconti rilasciati da persone presenti all’avvenimento: esse raccontarono di aver visto fanti, cavalieri e carri percorrere con grande foga i campi innevati tra il bosco e la chiesetta di San Giorgio per poi sparire senza lasciare traccia; altri affermarono di aver distinto ombre andare incontro ad altre ombre decapitate; un nuovo testimone raccontò invece di avere scorto, assieme agli spettri, una grande quantità di porci, mentre un ultimo spettatore registrò la presenza di pecore nere e bianche e infine di buoi bianchi e rossi. Da questo elenco, oltre alla presenza delle anime combattenti, emerge in modo significativo la partecipazione di animali diversi, certamente parte integrante del mondo contadino: tra di essi possono essere evidenziati i maiali, anche per il loro significato simbolico, tradizionalmente connesso con il peccato e il vizio.

Dal resoconto degli avvenimenti sembra di poter ricondurre questa straordinaria visione al mito dell’esercito furioso, largamente diffuso nel mondo germanico anche in epoca medievale e legato al tema della caccia selvaggia: il fatto che si sia manifestato anche a Verdello dimostra il perdurare della mitologia nordica nell’Italia settentrionale del XVI secolo. Le cacce selvagge rappresentano un soggetto antichissimo, diffuso in tutto il nord Europa, dalla Gran Bretagna alla Svezia, alla Germania: in alcuni periodi dell’anno, soprattutto durante le Quattro Tempora, era possibile stabilire un contatto tra il mondo reale e quello soprannaturale per poche ore, nelle quali si potevano manifestare visioni spettrali, quali la caccia selvaggia, in cui demoni, personaggi mitologici, anime dannate, ma anche fate e folletti davano inizio ad una caccia macabra, accompagnati da cani e da cavalli: con la cristianizzazione del mito questa schiera di fantasmi venne arricchita dalle ombre di persone morte prematuramente come i suicidi, i giustiziati o i bambini non battezzati.

Tradizionalmente il condottiero di questa schiera veniva identificato con Wotan, il dio germanico della guerra, della poesia, della magia, il protettore dei viandanti e il creatore del mondo; con il passare del tempo, in Francia venne sostituito da Hellequin (che darà origine alla maschera di Arlecchino grazie all’abilità e all’intuito dell’attore Tristano Martinelli, si veda anche Casini C., A tavola con Arlecchino e la Commedia dell’Arte, in Eurocarni n. 2/2012) e in Gran Bretagna da Re Artù: in particolar modo la terribile milizia di Arlecchino, caratterizzata da un frastuono “infernale”, poteva essere evocata semplicemente da un fragore inconsueto o addirittura da un chiarivari, cioè da una processione tipica del Medioevo, contrassegnata da grida e gesti osceni, indirizzata nei confronti dei vedovi o delle vedove che intendevano risposarsi. Anche streghe e negromanti avevano il potere di richiamare sulla terra l’esercito dei morti: gli strumenti tradizionalmente utilizzati in questo caso erano il cerchio tracciato per terra, il sale e l’acqua consacrati, le erbe magiche, le candele accese e i carboni ardenti. La figura di Wotan è decisamen-te ricca di fascino: non si tratta pro-babilmente di una divinità germanica, ma un dio straniero, approdato nel nord Europa dalle zone meridionali del continente. Attributo fondamentale della divinità è infatti un cavallo favoloso a otto zampe, Sleipnir, il più veloce e possente tra tutti, capace di cavalcare sulla terra e sulle acque e di scivolare tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Il destriero di Wotan mostra tutti i segni della sacralità attribuita al cavallo dai popoli delle steppe, i primi che addomesticarono l’animale facendolo oggetto di un culto profondo che venne poi esteso in tutta l’area del Mediterraneo, come sembrano dimostrare alcune caratteristiche degli dei tradizionali greci, come Apollo, Dioniso e Artemide, gemella di Apollo e designata anche con l’espressione di “Signora dei Cavalli” (ed è certamente un fatto degno di nota che in alcuni resoconti relativi alle cacce selvagge medievali l’esercito di cavalieri sia guidato proprio da Diana, l’Artemide romana). Wotan, quindi, la principale divinità germanica, sembra trarre la sua origine dai culti indo-asiatici, manifestando inoltre alcune caratteristiche tipiche degli sciamani orientali, come la conoscenza delle cose future, il rapporto con il mondo dei morti, l’estasi mistica e la padronanza della magia. Lo scontro spettrale avvenuto nel cielo bergamasco del 1517 vedeva così contrapporsi l’esercito guidato dal Re delle Quattro Tempora (o Wotan/Arlecchino) e la milizia condotta da quattro terribili sovrani, i cui nomi rispecchiavano le zone di provenienza: il re d’Oriente, sicuramente il più temibile, il re d’Occidente, il re di Settentrione e il re Austro. La tradizione dotta occidentale, mediata dalla sapienza rabbinica, attribuisce a questi re i nomi di Samael, Azazel, Azael, Mahazael. Tra questi il più terribile sembra essere Azazel, uno degli angeli ribelli dell’epoca precedente il diluvio universale.

La visione di Verdello ebbe una risonanza europea e venne diversamente interpretata anche alla luce degli sconvolgimenti militari e politici dell’epoca: i testimoni, invece, si ammalarono gravemente e molti di loro morirono.


Le possibili cause 
di una allucinazione collettiva

L’apparizione può essere certamente attribuita al trauma provocato dalla feroce battaglia di Agnadello e dalle sue conseguenze nefaste. Dal momento che all’epoca delle guerre d’Italia furono registrate dai cronisti un discreto numero di visioni apocalittiche e consolatorie, è possibile pensare anche a fenomeni allucinatori. È ormai risaputo che le condizioni di vita nei primi decenni del Cinquecento furono molto dure per le popolazioni italiane e soprattutto per i contadini, disperati per la fame e le malattie, ridotti a mangiare la terra dei campi, l’erba dei prati e le radici degli alberi pur di non sentire i tremendi crampi allo stomaco: nelle campagne erano ben conosciute le proprietà di alcune piante capaci di provocare alterazioni di coscienza, come il loglio (cereale molto simile al frumento che in alcuni casi può diventare tossico), il pane di papavero, il pane di canapa, i semi di stramonio (popolarmente conosciuto come “erba del diavolo”) e il solatro, noto anche per causare la pazzia e la morte.

L’assunzione di queste erbe velenose non doveva essere sempre attribuita al caso, poiché molte volte uomini e donne, sfiniti dagli stenti e dalla miseria, preferivano rifugiarsi in mondi diversi e paralleli facendo ricorso a vere e proprie droghe naturali. Dal momento che l’apparizione dell’esercito spettrale si verificò nei pressi della chiesa di San Giorgio, il santo cavaliere invocato contro le guerre, le carestie e le pestilenze, si può ipotizzare che l’oratorio costituis-se la meta di coloro che cercavano nel santo una protezione contro le calamità, in un’epoca in cui non era facile distinguere una pestilenza da altri morbi contagiosi o da fenomeni di avvelenamento alimentare. Nel centro storico del paese, poi, è stato rinvenuto un affresco tardo-quattrocentesco riferibile a Sant’Antonio abate, protettore contro l’ergotismo, un’altra forma di intossicazione da cibo, dovuta all’assunzione di segale cornuta e comunemente nota come “fuoco di Sant’Antonio”: la malattia, ritenuta ancora all’epoca una forma contagiosa, nella sua forma acuta provocava sia la cancrena che stati convulsivi e confusionari con offuscamento della coscienza, disorientamento spazio-temporale e senso di angoscia.

Per curare gli ammalati di ergotismo, un vero e proprio flagello a livello europeo, alla fine dell’XI secolo venne fondato l’Ordine Ospedaliero di Sant’Antonio abate, a Vienne, nel Delfinato (cfr. Eurocarni 5/2011). Il rimedio utilizzato dai canonici contro il male era un unguento prodigioso, definito “balsamo di Sant’Antonio”, il cui ingrediente principale era costitui-to dal lardo di maiale, ritenuto in grado di lenire, disinfettare e curare le piaghe del corpo: dal momento che i suini erano indispensabili per approntare le cure, oltre che una cospicua fonte di sostentamento, i canonici dell’ordine godevano del “privilegio del porco” fin dal XIII secolo, ossia della possibilità di allevare maiali nelle loro proprietà, comprese quelle cittadine, indipendentemente dalle leggi o dalle limitazioni delle autorità locali. Questi animali, allora, non sarebbero solo da considerare come il segno di una presenza diabolica degna di comparire in una visione spettrale, ma anche come esseri dotati di una natura ambivalente, frutto di un tormentato e secolare rapporto con l’uomo: bestie immonde e demoniache, pericolose per la salvezza dell’anima a causa della prelibatezza delle carni, che potevano indurre al peccato di gola, uno dei sette vizi capitali, ma anche risorse fondamentali per la vita degli uomini.

Cristina Casini




Bibliografia

O. Niccoli, Profeti e popolo nell’Italia del Rinascimento, Roma-Bari 2007.

O. Niccoli, I morti, la morte, le guerre d’Italia, in “Città in guerra. Esperienze e riflessioni nel primo ’500. Bologna nelle guerre d’Italia”, Argelato, 2008.

R. Scotti, Le apparizioni alla fine del 1517 nei pressi di Verdello, in “Altrove” n. 13, Torino 2007.

P. Camporesi, Il pane selvaggio, Milano, 2004.



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