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Gastronomia

Il cervellato, per un risotto alla milanese da tradizione

di Villa R.

Anche a molti tra i milanesi più puri la parola cervellatocervellata risuona estranea, se non per il rimando al cervellee, il nome del macellaio in dialetto meneghino. L’insaccato di cui tratterò era infatti tanto comune in passato da aver forgiato la denominazione della professione di coloro che lo producevano artigianalmente e lo vendevano. Giusto per introdurre di che cosa si tratta, ecco come lo descriveva nell’Ottocento il Cherubini nel suo celeberrimo Vocabolario milanese-italiano (1839): “Cervellàa. s.m. Cervellata? Composto di grascia (grasso di animale, Ndr) porcina e di grascia d’arnione (rene o rognone, Ndr) di manzo, scusse affatto di carne, triturate minutissimamente, insalate e regalate d’aromi e di cacio lodigiano trito; il quale composto s’usa o come condimento di brodi da zuppe o come ripieno d’altre vivande, e si vende insaccato in budelle tinte in giallo collo zafferano e strozzate a lunghezza di spanna come i salsicciuoli comuni. Ho segnato con la? la voce italiana Cervellata perché, quantunque simigli di viso la nostrale, pure la dissimiglia per valore se guardasi alla definizione che ne danno i dizionari generali della lingua. Essi la fanno una Salsiccia composta di carne e cervella di porco, cioè onninamente il rovescio della nostra Cervellata(omissis)... Forse in antico usarono i nostri padri far entrare nei loro Cervellàa anche le cervella porcine, e di quì nacque il nome all’oggetto; ma in ogni caso convien dire o che appena ne li regalassero per ornato e bizzarria, giacché troppi majali sarebbe stato necessario ammazzare per farne di proposito con poche e sì piccine cervella quegl’infiniti Cervellàa pei quali la cucina suol fare ricorso al pizzicagnolo, o pure che altrevolte pochissimi ne usassero le cucine, cosicché in tutti quei pochissimi potesse l’esistenza delle cervella porcine giustificarne il nome”.

Già nel Rinascimento il celebre cuoco Maestro Martino dava questa ricetta per la “cervellata”: prendere carne magra di maiale o vitello, batterla minutamente (tritarla), aggiungere cascio (formaggio) stagionato e grasso, buone spezie, sale, 2 o 3 uova, zafferano secondo i gusti. Infine il tutto andava impastato e messo in un budello di maiale, “et falle longhe o curte come ti piace”.

Vincenzo Corrado, esponente della cucina della nobiltà napoletana di fine Settecento, descrive nel suo “Il Cuoco galante” vari tipi di cervellati; la preparazione di quello alla milanese è così riassunta: “Per due libbre di pancetta di porco ben triturata fuori della cotica e due midolla di manzo e cervella di porco vi si mettono due once e mezza tra cannella, noce moscata e garofani, una libbra di cacio Parmigiano grattato, quattro once di acqua garofanata con varie gocce d’olio di garofani e due once di sale. Tutto mescolato se n’empiano le budella, prima tinte in acqua di zafferano, e si conservino all’uso”.

Giuseppe Sorbiatti nel “Trattato di Gastronomia” (1855) parla dell’impiego del cervellato nella ricetta del risotto alla milanese, del quale fece larghissimo utilizzo in qualità di responsabile delle cucine del nuovo Grand Hôtel et de Milan, inaugurato nel 1863, che diventerà casa di Giuseppe Verdi fino alla sua morte nel gennaio del 1901.

Sempre Sorbiatti ne “La Gastronomia Moderna” (2a ed. 1868) spiega il modo di fare il cervellato: “Prendete 4 chilogrammi di grasso purgato di porco e 2 di manzo, passatelo allo staccio e lasciatelo venire freddo. Aggiungetevi 130 grammi di sale, 15 grammi di drogheria, una mezza noce moscata grattugiata, 15 grammi di pepe in polvere e 280 grammi di formaggio fino di grana, amalgamate bene tutta questa composizione, riempite dei budelli di 25 millimetri di circonferenza, che avrete lavati bene e posti in fusione con un poco di vino bianco sciolto in un pizzico di zafferano onde far loro prendere il colore giallognolo, inversateli, asciugateli, tornate ad inversarli, riempiteli con la detta composizione, legateli, teneteli la lunghezza di 99 millimetri circa. Le famiglie casalinghe ne fanno molto uso per condizionare il risotto”.

Un altro grande chef meneghino di metà Ottocento, Giovanni Felice Luraschi, ne descrive la preparazione al capitolo XXIV del suo “Nuovo cuoco milanese economico” (3a ed. 1853, ristampato nel 2004 dall’editore Fratelli Frilli di Genova nella collana Lombardia Storica): “Una libbra di panzetta di majale fresco, altra libbra di midolla di manzo e grassa, tridato ben fino, unitevi un’oncia tra cannella, garofani e noce moscata in polvere e un’oncia di sale, mezza libbra di formaggio grattugiato, sbattete il tutto e riducetelo come una pasta, se sarà d’inverno unitevi un bicchiere d’acqua bollente sbattendolo ben assieme, pulite i budelli di bodeno, coloriteli con poco zafferano dandogli un bel color giallo all’esterno, empite i budelli di detta pasta passandola al cornisello, divideteli nella lunghezza di sei dita, tortigliateli e servitevene per le minestre”.

Luraschi dà anche la descrizione della variante di Monza, laddove mancano il midollo ed il grasso di manzo ed alla miscela di spezie si aggiunge anche del pepe rotto.



Roberto Villa



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