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Il Pubblico Macello: morte di un'istituzione

di Focacci A.

Sul numero 6 dell’anno 1993 di questa rivista, il compianto prof. Paolo Savi, che dalle file dei veterinari provinciali pervenne alla prestigiosa posizione di direttore generale dell’alimentazione presso l’allora Ministero dell’Agricoltura, pubblicò un articolo dal titolo “In morte di un Regolamento” con riferimento alla “lunga agonia” del regolamento sulla vigilanza sanitaria delle carni, approvato con RD n. 3298 nel lontano 1928.

Ed in effetti il 3298, anche per quanto riguarda la parte inerente i macelli, ha indubbiamente subito una lenta morte a seguito, dal punto di vista del diritto, della continua ed inarrestabile cascata delle direttive comunitarie, dei relativi decreti di recepimento (si pensi solo al 537/92 e al 284/94), nonché dei regolamenti comunitari del pacchetto igiene in tema di vigilanza sulle carni, con particolare riferimento alle caratteristiche strutturali e funzionali degli stabilimenti del settore.

Ecco quindi come, con la fine del 3298, si è chiusa praticamente anche l’epoca di un’istituzione, il Pubblico Macello, o meglio il Macello Pubblico Comunale, struttura base per la macellazione dei grandi animali (il comparto della macellazione dei piccoli animali da cortile e dei conigli avendo un storia a sé). Struttura base, si ripete, non solo perché individuata dal 3298 come istituzione la cui presenza doveva essere obbligatoria in tutti i comuni con più di 6000 abitanti (che potevano darvi vita da soli o consorziati), ma anche perché indicato come luogo nel quale avrebbe dovuto convergere la totalità delle macellazioni dei grandi capi di bestiame, essendo permesso l’abbattimento in strutture private solo per uso industriale.

Situazione peraltro già delineata da altre numerose disposizioni normative anche lontane nel tempo: in proposito si possono indicare addirittura il RD 9 ottobre 1889 n. 6442; il RD 3 agosto 1890 n. 7045; il RD 3 febbraio 1901 (Reg. Generale Sanitario); il RD 15 ottobre 1925 n. 2578, sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni e via di seguito.

Le norme del 3298/1928 rispecchiavano l’allora situazione italiana dal punto di vista sociale ed economico: la popolazione risiedeva per lo più nei paesi e nelle campagne ed era dedita all’agricoltura che, in quegli anni, era la più importante fonte produttiva e di reddito. Si produceva e si consumava sul posto, con consumi annui pro capite di carne, specie bovina, estremamente modesti.

La movimentazione del bestiame da macello e delle carni macellate era limitatissima, in certi ambiti territoriali addirittura inesistente e ancora quasi inesistenti erano anche gli scambi con l’estero. La macellazione, la lavorazione successiva delle carni e la distribuzione erano assicurate dalla rete delle macellerie tradizionali, assai numerose e capillarmente distribuite in tutto il paese. Infine era completamente assente l’allevamento intensivo e pressoché sconosciuta la Grande Distribuzione. Il Pubblico Macello quindi, secondo le intenzioni del legislatore, doveva essere, ed in gran parte dell’Italia in effetti lo era, il fulcro dell’allora modesta filiera delle carni rosse.

Il Pubblico Macello avrebbe dovuto assicurare, sempre secondo le intenzioni del legislatore, il rifornimento carneo delle popolazioni, e quindi doveva essere considerato dalle amministrazioni comunali un importante e necessario servizio dal punto di vista annonario e sanitario. Situazione questa, peraltro, non solo italiana ma diffusa e consolidata in molti altri paesi europei.

Tuttavia l’obbligo dei comuni di avere e gestire il Pubblico Macello fu seguito con molta discrezione: l’istituzione fu presente soprattutto nell’Italia centro meridionale, dove i macelli comunali rimasero, e sono rimasti, ancora, in modesto numero, ad invecchiare. E questo mentre restarono nel contempo indisturbate le amministrazioni comunali (numerose nel nord), che non ritennero di spendere il denaro del contribuente per una struttura già fin da allora giudicata non indispensabile.

L’industria privata delle carni, oggi fiore all’occhiello dell’industria alimentare italiana, nacque, crebbe e fiorì, proprio in concomitanza con l’obbligo della presenza del Pubblico Macello, ma andando a rifugiarsi, non appesantita da vincoli e limitazioni privatistiche, in comuni che erano comunque costretti ad esercitare la “privativa” sulle macellazioni perché non avevano un macello pubblico da gestire. Ecco perché l’industria delle carni si è sviluppata dapprima nelle regioni settentrionali dove i pubblici macelli scarseggiavano, e poi, tardivamente, nelle altre regioni dove questi erano numerosi.

Queste istituzioni, nella maggior parte dei piccoli comuni, avevano caratteristiche strutturali e funzionali molto semplici, in alcuni casi addirittura arcaiche. In genere erano comunque presenti modeste stalle di sosta ed altrettanto modeste attrezzature quali argani di sollevamento manuali, una semplice caldaia a legna per la tripperia e la pelatura dei suini, poche gancere e, sempre, il locale per il dazio.

Un netto contrasto tra il vecchio e il nuovo sulla copertina del trattato di Mario Asdrubali, Alberto Stradelli “I macelli : costruzione, gestione, aspetti sanitari”, Edizioni Agricole Bologna, 1965.

Di solito le strutture erano caratterizzate dal sistema a “celle”: ogni macellaio aveva la sua cella, la sua stanza di abbattimento o, meglio, il suo macello privato nell’ambito della struttura pubblica.

La lavorazione veniva svolta direttamente dai macellai coadiuvati dai loro garzoni e dai loro familiari ed il trasporto delle carni allo spaccio poteva essere effettuato anche con semplici carretti, a mano o a trazione animale, foderati all’interno con materiale zincato.

Le condizioni funzionali e igieniche della lavorazione erano assai distanti da quelle, peraltro obbligatorie, oggi in uso.

Il personale era rappresentato in genere solo dal custode, un impiegato comunale che spesso ricopriva anche altri incarichi, mentre la vigilanza sanitaria era assicurata dal veterinario condotto del posto, peraltro sempre occupato nelle sue altre incombenze di carattere assistenziale nelle campagne.

Col passare degli anni le strutture cambiarono e così si passò, ove possibile, al sistema delle grandi sale di macellazione con posti fissi di abbattimento e da allora, per coprire la lavorazione (prima eseguita direttamente dai macellai), fu necessario l’intervento di squadre e cooperative di operai abbattitori (a Siena chiamati gli “sgrascini”, in altre parti della Toscana gli “spellini”).

Poi, anche nei macelli comunali, specie in quelli più grandi presenti in genere nei capoluoghi di provincia, apparvero le catene di macellazione.

Per questi particolari stabilimenti, d’altra parte, il 3298 fissava l’obbligo della presenza di una precisa serie di attrezzature, tra cui i frigoriferi (sic!), e di affidare la direzione ad un veterinario, direttore, prescelto in base ad un serio concorso pubblico.

Considerata l’epoca, infatti, molti impianti dei capoluoghi di provincia furono caratterizzati da attrezzature e servizi di tutto rispetto: abitazioni per il direttore ed il personale di custodia, uffici, impianti di sollevamento meccanici, guidovie aeree per la movimentazione delle carni, frigoriferi, reparti di contumacia, tripperie, adeguate stalle di sosta, inceneritori.

Alcuni erano dotati di raccordo ferroviario ed erano prospicienti ai fori boari, i grandi mercati bestiame cui affluivano gli animali. Molti, per quanto riguardava il fronte della costruzione adibito all’ingresso delle persone, avevano caratteristiche monumentali, ed alcuni erano delle vere e proprie città, quali quelli di Roma (il Testaccio), di Milano, di Firenze ecc…

Dopo la chiusura di questi stabilimenti vi sono state addirittura proposte per la salvaguardia, in certi casi, appunto della loro parte monumentale, ricordo storico di un’epoca. A Roma la struttura del Testaccio, famoso per le trattorie presenti nella via d’accesso (dove si potevano assaggiare piatti particolari come la “coda alla vaccinara” e la “pajata”, preparata con l’intestino tenue dei vitelli di latte), è stata integralmente mantenuta per l’esecuzione di spettacoli e per altre varie iniziative.

La morte del Pubblico Macello, come per il 3298, è stata graduale, lenta ma inesorabile. Infatti, a parte l’impatto con le normative europee, la fine era segnata da tempo, addirittura già al momento dell’uscita dello stesso 3298.

Fattori determinanti sono stati lo spostamento delle popolazioni verso le città, con l’aumento dei consumi di carne, specie bovina; il continuo e forte aumento della movimentazione del bestiame e delle carni sul piano interno ed internazionale (dovuto anche alla liberalizzazione degli scambi conseguente alla formazione della Comunità Economica Europea); lo sviluppo dell’allevamento intensivo e della Grande Distribuzione e, soprattutto, la crescita forte e continua dell’industria privata della macellazione e della trasformazione delle carni, più libera dai vincoli burocratici, più agile e pronta negli aspetti gestionali.

È stata anche determinante l’impossibilità, per le amministrazioni comunali, di sostenere i costi di mantenimento e di gestione degli impianti, costi sempre più onerosi, mentre il livello delle macellazioni costantemente diminuiva sotto la spinta concorrenziale della macellazione privata e si facevano sempre più impellenti e gravi le incombenze relative alla messa a norma degli impianti secondo le disposizioni comunitarie.

È da notare, comunque, come la costruzione di nuovi macelli pubblici, o la ristrutturazione di quelli già esistenti, specie nei capoluoghi di provincia, sia continuata ancora fino agli anni ‘80 del secolo scorso, peraltro non tenendo gran conto delle normative in questione emanate dalla Comunità fin dal 1964 con la Direttiva 433/64 CEE.

Visione assai miope del cambiamento dei tempi che determinò anche forti aggravi di spese per le pubbliche amministrazioni.

La fine del Pubblico Macello è direttamente collegata con la crisi e quindi con il dimensionamento della macelleria tradizionale, direttamente legata alle produzioni locali, a loro volta collegate appunto con le strutture comunali.

La legislazione comunitaria e nazionale non ha fatto altro che seguire tutti questi fenomeni epocali, caratteristici di forti cambiamenti di natura economica e sociale.

È doveroso, a questo punto, ricordare la figura e la presenza del veterinario condotto, competente e responsabile dell’ispezione delle carni, nei piccoli macelli pubblici, e del veterinario direttore, nei macelli dei capoluoghi.

Fino all’avvento delle grandi bonifiche sanitarie del bestiame, delle tecniche industriali di allevamento, con le conseguenti sempre migliori condizioni igieniche ed alimentari per gli animali, l’ispezione delle carni non era quella facile routine meccanica che sembra diventata oggi.

Ogni capo macellato faceva caso a sé e, solitamente, si presentava all’ispezione quasi come un atlante di anatomia patologica degli animali domestici. Inoltre mancavano, al contrario di oggi, precisi protocolli d’intervento e laboratori di supporto per poter diluire le competenze e le responsabilità. Un altro mondo, difficilmente comprensibile per le giovani generazioni di imprenditori e di veterinari.

Alcuni macelli pubblici sopravvivono ancor oggi: specie nel meridione, essendo però la loro gestione molto spesso affidata a privati o cooperative, ed essendo quasi tutti dotati della vecchia qualifica di struttura a capacità limitata.

Secondo quanto previsto dal “pacchetto igiene”, questi impianti dovranno quindi, entro il 2009, essere messi allo stesso pari dei macelli industriali, certo con adeguati e costosi interventi, e questo probabilmente determinerà un altro colpo alla loro ulteriore sopravvivenza.

Aldo Focacci



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