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Speciale Sardegna

Le carni ovine dalla tradizione biblica al mercato globale

di Barberis C.

Rav Umberto Piperno (Rav è il titolo che gli compete come rabbino capo di Trieste) pregò l’operaio di issargli per una gamba la pecora in modo che pendesse dal nastro trasportatore collocato sotto il soffitto del mattatoio. E di porgergli delicatamente il muso della belante, in modo che la rasoiata fosse quasi una carezza da un capo all’altro del collo. Il sangue cominciò subito a scorrere a fiotti mentre ancora la vittima si inumidiva le labbra.

Da sinistra: Antonello Salis, titolare de “La Genuina” di Ploaghe, Corrado Barberis e Federico Medici.

La macellazione prescritta dalla Bibbia che legittima solo l’uso di carni dissanguate perché il sangue è il simbolo della vita, e va quindi rispettato, era compiuta. La carne era pronta per essere infine kosher, purificata per il consumo.

Lunga la preparazione. Anzitutto, quella che si è sbrigativamente indicato come rasoiata è inferta da un coltello senza punta. Ha il terminale quadrato perché non deve pungere, ferire in profondità, ma solo accompagnare attorno al collo la carezza mortale. Tagliare, non colpire.

Esso va affilato sulla pietra detta belga — ben più chic della mola di un arrotino — per almeno una dozzina di volte, da una parte e dall’altra, in su e in giù, con frequenti aspersioni di acqua, mai d’olio.

Le regole di questa operazione (meglio sarebbe chiamarla cerimoniale, anche per il rispetto dell’immolato) sono antiche ma non antichissime. Il testo sacro ha prescritto il dissanguamento, ma le modalità sono state lasciate alla giurisprudenza dei rabbini, tra i quali primeggia Maimonide, il grande cordovano del secolo XII, ma forte peso ha anche Joseph Caro — nessuna parentela con il famoso nostro Annibale, traduttore dell’Eneide — vissuto attorno al 1570.

Maimonide, Caro, e ci si aggiunge pure Isacco da Fez. Apparirà subito l’importanza avuta, nell’elaborazione delle norme, del ramo dell’ebraismo detto sefardita perché riferito a quelle aree (Spagna, Portogallo, Maghreb) che stanno ad Occidente, dove tramonta il sole (sefarad). È soprattutto questo ramo dell’ebraismo a non accontentarsi del solo dissanguamento. Rav Umberto Piperno — o, se si preferisce, il dottor Umberto Piperno, mio eccellente allievo alla Facoltà di Scienze Politiche di Roma, dove si è laureato — deve anche accertarsi che le interiora siano sane, che i polmoni non presentino pericolose aderenze, frutto di pleuriti o altro. Non si tratta di una semplice formalità: non più di quattro pecore su cinque sono, in media, abilitate al consumo, e vengono quindi promosse. Le scartate sono riservate ad un mercato anch’esso di scarto, quello degli infedeli.

Qualche minore oculatezza, in tema di polmoni sani, è manifestata — dice Piperno — dai componenti l’altro grande ramo dell’ebraismo, i cosiddetti ashkenaziti, provenienti dall’Europa Orientale.

Guai, però, a dedurne un permissivismo sistematico. Su altri temi sono proprio essi a pretendere una più strenua meticolosità. Così, nel periodo pasquale, quando il ricorso al pane fermentato è strettamente proibito e soltanto gli azimi regnano, può capitare di vedere estesa al riso la condanna alimentare.

Per chi viene dalla Polonia, dalla Bielorussia o dall’Ucraina, il riso è, infatti, una cosa un po’ “strana”, di cui è meglio non fidarsi...

Sempre in omaggio al precetto biblico, l’erba amara che deve accompagnare ogni pasto pasquale sarà per gli ashkenaziti il rafano, o cren, mentre i sefarditi avranno a disposizione la lattuga romana.

Entrambi i gruppi daranno poi prova di una certa elasticità a proposito delle varie risciacquature cui deve essere sottoposta la carne per eliminare ogni traccia di sangue.

Pinuccio Corda, titolare del macello di Tula M.T.I. Srl, dove Rav Umberto Piperno ha effettuato la macellazione kosher.

Se c’è un bello spiedo ruotante o una griglia ricca di carboni, ci penserà l’arrosto a eliminare ogni scoria, ogni occasione di impurità. Il cibo sarà finalmente kosher, purificato.

Kosher per gli ebrei, hallal per i musulmani. Il tabù del sangue fa inorridire entrambe le religioni. Ma — sorride, non irride, Piperno — se è lecito ai Musulmani cibarsi di una pecora sgozzata con il rituale ebraico, il viceversa non è valido perché i seguaci di Maometto mattano con un coltello a punta acuminata, non quadra, e perché sono meno pedanti nel controllo delle interiora. Inoltre, ogni capo viene immolato con la testa rivolta alla Mecca.

Più formale — conclude il Rav — il rituale ebraico va comunque vissuto in letizia. Tant’è vero che le regole della mattazione, pur potendo occupare la bellezza di 64 volumi, sono riassunte sotto un’unica gaudiosa insegna: tavola apparecchiata. Così anche i codici si fanno allegria.

Non avrei avuto occasione di sfiorare questi argomenti, che spero di avere non troppo infedelmente esposto, se l’11 ottobre scorso, nella sala della Camera di Commercio di Sassari, non si fosse svolto il convegno “Certificazione kosher: nuove opportunità commerciali per il patrimonio ovicaprino sardo. Alimenti ed elementi dalla tradizione biblica al mercato globale”.

Convegno preceduto da qualche esempio concreto nel macello-modello di Pinuccio Corda, notevole esempio di iniziativa privata, sito in Tula, a sud-est di Sassari.

Ad impulso di Antonello Salis, nella sua duplice veste di trasformatore di carni (ovicaprine, ma anche suine) e di presidente degli artigiani alimentari della CNA sarda.

Rav Piperno mostra il doppio sistema di identificazione kasher e superkasher.

Sembra impossibile, ma nonostante la storica presenza ovicaprina che raggruppa oggi nell’isola il 42% degli ovini e il 22% di tutti i caprini italiani, nessun sardo aveva mai pensato a convertire questa carne in prodotti di salumeria: come accade, invece, con i famosi violini valtellinesi, rinvenibili anche a Domodossola e in altre località alpine.

Ci volevano i due Salis, con la loro Genuina di Ploaghe, a sud di Sassari, per inventare un prodotto che mescola fantasia e rigorosità filologica: sicché prosciutti e salsicce di pecora e capra rappresentano una salumeria nata storica perché tale e quale a quella che sarebbe stata nei secoli se mai fosse esistita.

Quando si pensa che, per definire tradizionale un prodotto, la legge italiana — ma non solo italiana — esige 25 anni di vita, c’è da trasecolare: dalle mani dei Salis escono dei neonati centenari.

Ad Antonello — ora che il successo sta arrivando — le pubbliche relazioni. A Michelangelo il controllo tecnico della produzione. Suini e cinghiali sono stati la loro palestra, il loro campo di esercitazione.

Ricavato da maiali bradi o semibradi, del peso di due quintali e spesso ancor più, in aziende di piccolissimi coltivatori, i prosciutti dei Salis eguagliano per morbidezza quelli di Parma, li superano spesso per profumo, mascherano una leggera maggiore sapidità dietro un accattivante spessore di grasso che fa ottenere loro la santità dell’aureola.

E capolavoro sono quelli di cinghiale, che riescono untuosamente soavi, mentre quelli toscani sono inevitabilmente salati e seccagni, da tagliarsi col coltello. Confinati, questi ultimi, nell’area di pur splendide merende. Affidabili alla macchina, i primi, perché capaci di sostenere un intero pranzo. È da questa lezione che nasce la salumeria ovicaprina. Essa sarà, almeno in partenza, una salumeria di lusso: destinata a enoteche ancor prima che a ristoranti, a soddisfare sfizi ancor più che a togliere fame.

Ma destinata, proprio per questa opulenza, a riscattare la pecora da quell’immagine un po’ avvilente che la accompagna assieme a suo figlio, l’agnello, nella gastronomia italiana. In quante famiglie borghesi l’agnello è stato sempre mangiato arrosto, per devozione la domenica di Pasqua e in costolettine fritte al lunedì, dopodiché il capitolo ovino veniva chiuso e rimandato all’anno prossimo?

Convegni come quello di Sassari, contatti come quelli con le comunità ebraiche — ma in sala era presente anche l’Imam, festeggiatissimo — sono preziosi per rinnovare l’immagine della pecora nella nostra coscienza nazionale. Grazie a ciò la belante cessa di produrre solo proteine, fa anche cultura.

Particolare interessante. I prosciutti di pecora richiesti dai rabbini non sono prosciutti di coscia. Sono quelli che noi chiameremmo di spalla, ricavati dalle gambe anteriori. Sono cioè esemplari meno facilmente esitabili sul mercato italiano, che predilige i cosciotti ben polputi.

Il tavolo dei relatori al convegno svoltosi l’11 ottobre scorso, nella sala della Camera di Commercio di Sassari, “Certificazione kosher: nuove opportunità commerciali per il patrimonio ovicaprino sardo. Alimenti ed elementi dalla tradizione biblica al mercato globale”.

Ma perché gli ebrei vogliono le zampe anteriori? Perché la Bibbia racconta la lotta sostenuta da Giacobbe contro l’Angelo che gli colpì il nervo sciatico, creando — in ricordo e venerazione di quel memorabile evento — un tabù alimentare (Genesi, 32, 25). Sì, se ci fosse un chirurgo capace di estrarre il nervo sciatico la coscia diverrebbe mangereccia, kosher. Ma quanto costerebbe l’operazione? Ecco allora la scelta degli arti anteriori, meno collocabili sul mercato. Felice sinergia per i Salis e per gli altri salumieri a venire. Serve, la Bibbia, serveÉ

Corrado Barberis



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