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Tigrinto Bistonio ovvero: "Il Maiale e i Lumi della Ragione"

La retta ragione ci mostra come il maiale sia, senza alcun ragionevole dubbio, l’architrave della civiltà occidentale. Per questo quelli che, per le più diverse ragioni, sono di essa critici, non sempre gli sono benevoli, poveretto. Esiste, tuttavia, una schiera di studiosi che, attraverso i secoli, ne ha, con virtuosa tenacia, difeso il ruolo e decantate le virtù.

Fra questi certo non fu ultimo Giuseppe Ferrari. Nacque a Castelvetro di Modena nel 1720, quando ancora la terra era oppressa dal “Vecchio Regime” e sottoposta in feudo alla famiglia Rangoni.

Ebbe a madre Camilla Castagnini. Costei, siccome lo mise al mondo con l’ausilio specifico del proprio marito, fece sì che a padre gli fosse questi, che si chiamava Antonio Ferrari. Fu per tale circostanza che il piccolo Giuseppe si chiamò Ferrari pure lui.

Di intelligenza pronta e lucidissima vide subito come, fra gli abitanti di Castelvetro, non sempre, al tempo, in forma perfetta ed in impeccabile arnese, belli, fieri, vitali, onesti, si muovessero, in libertà, allora si usava, branchi di splendidi porci.

Non abbandonò mai queste sue prime osservazioni infantili e l’intuizione di come fra il porco che si ciba ai suoi piedi e la quercia, che incorona gli eroi, dovesse pur esserci una qualche corrispondenza.

Le alleanze migliori si fondano sempre su diete diversificate.

I tempi erano oscuri. Fu costretto a lasciare la casa dei genitori “povera gente… ma onesta assai” e la sorella, che di qualche tempo gli era maggiore, due fratellini erano morti subito dopo la nascita, per dedicarsi alla carriera ecclesiastica sotto la “protezione” della famiglia feudataria, che più tardi si servì di lui come segretario. Fu, insomma, un tipico “abatino” dell’Illuminismo.

Partecipò, come era costume, a varie “Accademie”. Col nome di “Licon Lapizio” lo troviamo accademico a Busseto. Abbiamo, in Modena, presso la Biblioteca Estense, un sonetto da lui composto in occasione del suo ingresso nell’Accademia finalese dei “Fluttuanti”.

Gli professò amicizia l’avvocato Carlo Goldoni, il veneziano che scriveva le “commedie nuove”. Insomma fece parecchie belle incursioni in quella “Repubblica delle Lettere” o “Dei filosofi”, come si diceva allora, che fra inchini, profumi, corteggiamenti, villeggiature ed ambienti dello stile che si chiamava “rococò” coltivava e discuteva le “idee che venivano di Francia” e le novità del signor Voltaire.

Fu proprio grazie agli acuti strumenti d’osservazione fornitigli dal filosofo francese che comprese come varie espressioni che allora incipriate piccole dame rivolgevano di solito ai loro cavalieri fossero ingiuste ed immotivate.

Accadeva spesso che, nel sereno cicaleccio di qualche salotto, all’improvviso, fra agitar di ventagli, qualche signora sbottasse, rivolta a qualche gentiluomo, che fino ad un istante prima le era stato tranquillamente vicino, con espressioni come “Via! La finisca! Maiale!”, oppure “ Stia fermo! Porco!”, od anche, semplicemente soltanto “Maiale!”.

Questo costume di associare un animale che tanto era onesto e rispettoso “tu, che vivi alla buona e senza briglia di moda e servitù che tanto annoia, l’usanza tua di libertade è figlia…”, (scrisse in seguito in versi da cui traspare la dimestichezza coi testi di Rousseau e dell’Enciclopedia), ad atteggiamenti ufficialmente deprecati, gli parve sommamente ingiusto.

Fu così che, più tardi, quando Arcade ed Accademico Ducale dei Dissonanti – l’Accademia era stata fondata da Francesco II nel 1678 – col nome di Tigrinto Bistonio si accinse alla sua maggior opera, essa non poteva che riguardare il tema del riscatto del porco dalla condizione di oppressione, di servitù, di sottovalutazione nella quale giaceva.

Nei suoi “Elogi del porco”, che qui sottoponiamo per la cura e le attenzioni delle edizioni del “Fiorino” di Modena, naturalmente, città che fu sempre, sin dai tempi descritti da Livio “patria ad innumeri schiere di porci”, ai lettori, si fece paladino di un’appassionata difesa dell’animale sul piano storico, artistico, culturale, poetico e della mitologia religiosa.

Speriamo che i lettori ne apprezzino interi la passione ed il coraggio, vero “sdegno repubblicano” ante litteram, che lo scaglia contro i preconcetti di cui il Vecchio Regime circondava il nobile animale che, da modenese, chi scrive questa nota, si vanta chiamare “concittadino”.

Bellissimo e profondo, a questo proposito, un passaggio che il nostro (Tigrinto Bistonio, alias l’abate Ferrari, non il porco), rivolge alla nostra e sua città “Vanta il tuo cotichin, Modena mia, del Popol di Quirin Colonia Antica…”.

Gli “Elogi del Porco” di “Tigrinto Bistonio” che, in Modena, per la prima volta videro la luce per i tipi degli “Eredi di Bartolomeo Soliani Stampatori Ducali” nell’anno MDCCLXI, (1761, per chi non mastica troppo la numerazione romana), restano una lettura necessaria ed un capitolo fondamentale nella storia della comprensione di un personaggio, il maiale, senza il quale i passaggi fondamentali della storia umana sarebbero mancati.

Chi scrive presume di aver visto il mondo dall’alto delle spalle di umanisti ed illuminati come il Tigrinto Bistonio e di essere andato oltre rispetto alle loro teorie. Dobbiamo alla buona volontà dello studioso D. Carlo Antonio Giardini se questa splendida opera è giunta sino a noi. Infatti l’autore, preso da un accesso di modestia, (abbiamo rischiato qualcosa del genere anche con l’Eneide di Virgilio), voleva condannarla all’oblio.

Fu Carlo Antonio Giardini, che frequentava gli stessi ambienti illuministi dell’autore, che si impose ed ottenne la salvezza dell’opera per “offrirla ai dotti e saggi amadori della poetica novità ”.

Per completezza dobbiamo anche registrare come, in tempi “abbastanza oscurati”, il canonico don Luigi Rinaldi, in “Appendice V” al suo “Castelvetro e le sue chiese”, Tipografia Ferraguti in Modena, (1909), scrivesse dell’Abate Ferrari “facile e grazioso, segnalatamente nel genere burlesco, in cui sdrucciolò alquanto dimenticando la gravità del suo ministro; della qual colpa si dà facile perdono per ragione dei tempi in che visse, … etc… etc…”. Il Rinaldi o era contro gli illuministi o era vegetariano. Non abbiamo notizie in proposito. Non è questa sede per ulteriori divagazioni. Collochiamo l’Abate Ferrari nel suo secolo, consideriamo di quali strumenti di analisi e di lettura delle situazioni la sua lucidissima mente potesse godere, apprezziamone dunque l’impegno e le attualissime intuizioni. Buona lettura!

Antonio Mascello

Nota (Post scritta)

Nel 1796 l’ultimo feudatario di Castelvetro, paese natale dell’Abate D. Giuseppe Ferrari, fu allontanato a seguito della definitiva abolizione dei feudi (per la cronaca, l’iniziativa fu dell’avvocato Bartolomeo Cavedoni, pure lui illuminista e giacobino accesissimo). C’è un poco di confusione sulle date. Chi stende queste note ritiene che, in paese, l’evento si verificasse l’8 ottobre 1796, cioè “il 17 vendemmiatore, anno quinto della Repubblica Francese”, a stare a come si contavano i giorni in quel momento. Fu insediata una “Municipalità” ed adottata la bandiera tricolore. Non si può dire che i maiali fossero dal Governo Democratico esonerati dal loro consueto tributo di prosciutti, cotechini, braciole, zamponi di Modena, etc… Però essere in una “illuminata condizione di eguaglianza” col resto della cittadinanza è una bella soddisfazione. La ghigliottina cosa era se non, in fondo, una grande affettatrice che tutti equiparava?

Comunque, da quel giorno i porci del posto, e delle altre contrade vicine, numerosissimi ed organizzati attorno a varie porcilaie ed ad attivissimi e fiorenti salumifici, hanno diritto, come certo aveva sognato l’Abate Ferrari, al titolo di “cittadino”.



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