Con la stagione invernale, chi ama le “emozioni forti” a tavola e desidera condividerle insieme agli amici, in allegria, certamente apprezzerà ancora di più quella salsa a base di acciughe salate, aglio e olio che si chiama bagna càuda (tradotta letteralmente dal dialetto, “salsa calda”). Caratteristica della cucina piemontese, la sua tipicità è garantita anche dal riconoscimento PAT (Prodotto Agroalimentare Tradizionale) del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. La bagna càuda è originaria in particolare dell’Astigiano, delle Langhe, del Roero, del Monferrato e delle province di Cuneo, Torino, Alessandria e Asti, cioè del basso Piemonte dove, nei secoli passati, era assai facile procurarsi l’ingrediente fondamentale — l’acciuga salata — usata tuttora in molte altre ricette tipiche piemontesi, soprattutto tra gli antipasti (ad esempio, le anciove al bagnèt verd o quelle al bagnèt ross, dove “anciove” — dallo spagnolo anchoa, dal portoghese anchova e dal francese anchois — significa appunto “acciughe”).
L’antico Piemonte si approvvigionava di acciughe salate presso le saline della Provenza e delle foci del Rodano (essendo allora sotto il dominio sabaudo sia Nizza che le terre circostanti) attraverso una serie di rotte commerciali che valicavano i passi delle Alpi Marittime ed erano note come “vie del sale”. Si racconta che il commercio delle acciughe salate fosse un modo per commerciare il sale aggirando l’obbligo di pagare gli elevati dazi che gravavano su quest’ultimo. In realtà in tutto l’antico Piemonte la gabella del sale era una tassa obbligatoria e non legata al consumo, perciò andava pagata in ogni caso. Inoltre le acciughe sotto sale erano molto più costose e il loro prezzo era sostenibile solo in relazione alle modeste quantità di acquisto.
La bagna caùda apparsa nella notte dei tempi sulle coste della Provenza doveva avere il nome di anchoiade, come derivazione da quell’anciove di cui abbiamo parlato prima (e che, con poche differenze, si trova anche, per esempio, a Genova e in Sicilia). Era nata probabilmente presso gli operai delle saline che, seduti in circolo, immergevano dei semplici pezzi di pane nell’intingolo di aglio, acciughe e olio d’oliva fusi insieme dalla cottura. Furono poi senza dubbio i mercanti astigiani medievali, durante le loro spedizioni per rifornirsi di sale e acciughe, a conoscere questa salsa e a introdurne l’uso in patria, diffondendolo in breve in tutta la vasta area dei loro commerci (Piemonte meridionale e nord-occidentale). Giunta in Piemonte e fatta propria dai contadini astigiani, l’antica ricetta provenzale mantenne il rituale del cerchio attorno allo scaldino di terracotta, ma fu adattata agli usi e alle risorse del territorio, in particolare sostituendo il pane con gli ortaggi autunnali locali, sia cotti che crudi, che erano alla base dell’alimentazione povera.
Per lungo tempo rimase relegata all’interno del mondo contadino, anche per via della presenza così massiccia dell’aglio che la rendeva non gradita alle classi sociali più abbienti. Poi, a partire dalla metà del ‘900, fece la sua apparizione anche sulle tavole dei ristoranti, con successo sempre più crescente fino a diventare il simbolo della tipicità gastronomica piemontese.
Attualmente sono molte le trattorie e i ristoranti piemontesi che propongono nel loro menu la bagna càuda, ma diffusissima rimane la sua presenza soprattutto nei pranzi e nelle cene private. Anche oggi sopravvive intatto il rito dello scaldino, che però da collettivo è diventato individuale, mentre si è mantenuto il rito di intingere tutti insieme stando riuniti intorno alla tavolata comune, simbolo imperituro di fraternità e convivialità. Infatti, nei tempi passati, non rappresentava tanto un piatto quotidiano quanto piuttosto un condimento preparato apposta per celebrare momenti gioiosi come, per esempio, il termine della vendemmia o la spillatura del vino nuovo (una delle leggende sulla sua nascita vuole proprio che venisse preparato per togliere ai vendemmiatori il dolce odore, spesso quasi nauseante, dell’uva pigiata). Veniva allora consumato attingendo da un solo contenitore (pèila) posto al centro del tavolo (come ancora si fa con la fonduta, altra tipicità gastronomica diffusa anche in Piemonte).
Nei testi gastronomici piemontesi la “salsa calda” ha lasciato pochissime tracce di sé almeno fino al 1875, quando il romanziere Roberto Sacchetti ha descritto a Montechiaro d’Asti la bagna càoda così come la conosciamo ancora oggi.
È un piatto a base di aglio, olio extravergine d’oliva e acciughe dissalate. Molti sostengono che la vera ricetta della bagna càuda dovrebbe contemplare l’utilizzo dell’olio di noci e non dell’olio di oliva: questo perché le coltivazioni di ulivo sono liguri e non piemontesi. In realtà nel Piemonte meridionale, fino a buona parte del XVIII secolo, esisteva una produzione di olio d’oliva ampiamente documentata e sufficiente al fabbisogno locale, comunque integrato dal commercio con Nizza e con la riviera di ponente della Liguria, aree (come già ricordato) che erano sottoposte al dominio sabaudo e che tradizionalmente erano fornitrici di tali ingredienti fin dai tempi dell’impero romano. Appare quindi del tutto plausibile sostenere che, fin dall’origine, nella bagna càuda fosse contemplato l’utilizzo dell’olio d’oliva.
Per la sua pesantezza solitamente oggi viene considerato un piatto unico, ma talvolta può anche essere servito come antipasto durante una cena tra amici. La ricetta tradizionale, così come descritta anche nel sito della Regione Piemonte, contempla quanto segue (gli ingredienti sono per 4 persone):
12 acciughe “rosse di Spagna”,
12 spicchi d’aglio,
1/2 litro d’olio extravergine d’oliva,
200 grammi di burro,
vasto assortimento di verdure tipiche del Piemonte (sia crude che lesse),
uova e fette di polenta.
La preparazione ha regole precise, per non travisare la ricetta degli antichi vignaioli. Innanzitutto le acciughe devono essere “rosse di Spagna”, stagionate almeno un anno, appena tolte dalla salatura, pulite, lavate in acqua e vino, ben asciugate e diliscate (almeno 2 o 3 acciughe a testa). L’aglio — vera “anima” del piatto — deve essere presente in misura di 2-3 spicchi a persona, non bolliti né nell’acqua né nel latte, ma soltanto liberati dal germoglio, tagliati a fettine sottili, lasciati qualche ora in una zuppiera di acqua fredda e poi asciugati. L’olio deve essere extravergine di oliva e ne occorre non meno di mezzo bicchiere per persona.
Le verdure da intingere nella salsa devono essere tutte quelle dell’habitat degli orti piemontesi, con l’esclusione di alcune inadatte perché troppo aromatiche (ad esempio il sedano, il finocchio, i rapanelli); tra quelle più indicate ci sono i già ricordati cardi gobbi di Nizza o cardi spadoni di Chieri, peperoni crudi, peperoni arrostiti e spellati, peperoni conservati sotto aceto, e poi raspe, topinambur, cavoli verdi, bianchi e rossi, cuori bianchi di scarola e di indivia, porri freschi, cipollotti lunghi, rape bianche, barbabietole rosse al forno, cavolfiori lessi, cuori di cavoli lessi, cipolle al forno, piatti di patate bianche bollite nella loro buccia, mele, fette di zucca arrostite o fritte.
Consentite anche fette di polenta calda, arrostita o fritta, e cestini di uova fresche (ma soltanto se siete più che sicuri della loro provenienza e della loro assoluta assenza di rischi sanitari) da strapazzare nell’ultimo cucchiaio di bagna càuda che rimane nel tegamino di coccio. Un tempo si usavano solo i cardi gobbi, tipici di Nizza Monferrato, i topinambur e i peperoni conservati nella raspa, che è ciò che rimane del procedimento di vinificazione del grappolo d’uva.
La cottura — e questo è il punto decisivo per una bagna càuda buona, sana e digeribile — deve essere breve e tenuta sempre a calore basso, in un tegame grande di terraglia. Bisogna cuocerla a fuoco lento per almeno mezz’ora, sempre rimescolando l’aglio con un cucchiaio di legno, badando bene che non scurisca; le fettine d’aglio devono ammorbidirsi e sciogliersi formando una crema omogenea bianca e soffice. A questo punto bisogna aggiungere tutto l’olio e le acciughe, e far cuocere l’intingolo a calore basso solo quel tanto che basta a far liquefare le acciughe, per creare con l’aglio un’odorosa crema marrone chiaro.
La bagna càuda è pronta e, come ricorda il suo nome, deve essere tassativamente consumata cauda, calda, anzi molto calda, appena preparata. Si può portare in tavola la pirofila di cottura con sotto l’apposito fornello a spirito, oppure usare le sciunfiette (ciotole di terracotta o di rame) singole, una per ogni commensale, con un cero acceso sotto in continuazione affinché l’intingolo non si raffreddi mai durante tutta la degustazione. È il caratteristico fujot. La degustazione in sé e per sé è quanto mai semplice: si prendono direttamente in mano le verdure, si intingono e, come se fossero un cucchiaio, si cerca di raccogliere la salsa portandole alla bocca. Il piatto va accompagnato con del vino rosso robusto. Se si vuole attingere al ricchissimo ambiente langarolo, va benissimo il Barbera, meglio se novello, ma sono ottimi anche il Nebbiolo, il Barbaresco o il Dolcetto, quest’ultimo particolarmente utilizzato nei pasti quotidiani dell’Albese.
Naturalmente, come per la maggior parte delle ricette tradizionali, anche della bagna càuda esistono varie versioni e rivisitazioni a seconda della zona in cui la si mangia. Nel Monferrato, ad esempio, si preferisce la versione originale; in altre zone del Piemonte è subentrato invece l’uso arricchirla con panna da cucina e/o latte allo scopo di ridurre l’odore dell’aglio, rendendo la salsa più dolce e delicata, oppure scaglie di formaggio fresco da far sciogliere insieme alle acciughe.
Un’ultima curiosità: la bagna cauda è citata nell’episodio Abbandonati nello spazio della serie televisiva Babylon 5, quando il capitano Michael Garibaldi, a bordo della nave spaziale, dopo vari tentativi, riesce a procurarsi di contrabbando e contro il parere del medico di bordo gli ingredienti della preziosa salsa a cui è molto legato.
Nunzia Manicardi
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