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Pesca

In mezzo scorre il fiume

di Beltrama A.

Un fiume, un pescatore, un pugno di mosche. Ingredienti di base per costruire un sogno o per scrivere un romanzo di successo. Siamo alle porte del selvaggio West degli Stati Uniti, dove le Montagne Rocciose e gli immensi spazi che si aprono tra le loro cime ci confermano che le pianure del Midwest sono ormai un ricordo. Idaho, Montana, Wyoming: stati remoti, misteriosi, i cui confini rettilinei suscitano sospetto. È qui che la pesca a mosca diventa l’elemento che fa quadrare tutto: economia, turismo, fantasia, cultura, tradizione, letteratura e imprecazioni, per i pesci scappati o per quelli che non vogliono abboccare. È qui che le figure tipiche della montagna, con i loro ritmi blandi e la loro comunione mistica con la natura, diventano modelli e smettono di essere oggetti di sarcasmo. Ranger e taglialegna, cacciatori ed esploratori solitari, cowboy e pescatori. Sono loro gli imprenditori rampanti di questo triangolo di anti-America, o, forse detto così è meglio, di questa particolare sfaccettatura dell’America. Magari meno nota e pubblicizzata di altre, ma egualmente viva e affascinante.

Il delirio nazional-popolare che da queste parti accompagna qualsiasi aspetto legato alla pesca alla trota appare incredibile agli occhi del pescatore italiano, avvezzo a praticare la sua passione nel silenzio confortante di una piccola cerchia di amici. Abituati a fare chilometri di statali ingolfate e strade sterrate, mentalmente pronti a farsi largo tra le erbacce e le ortiche, si rimane quasi male quando, lungo una scorrevole autostrada a due corsie, si incontra ogni due chilometri un bel cartellone metallico con l’immagine di una trota guizzante. Sono “fishing spots”, aree attrezzate per la pesca con tanto di piazzola per il parcheggio e accesso spianato al fiume: corsia di decelerazione, un’agile curva ad ampio raggio e in pochi secondi si è già sulla sponda, con la possibilità di lanciare la propria mosca addirittura dal finestrino. Prima di scendere sul greto è un susseguirsi infinito di cartelli: mostrano illustrazioni dei tipi di trota presenti in quelle acque, riassumono il regolamento, ogni tanto augurano persino “buona pesca”, infischiandosene dell’effetto iettatore dell’espressione. Certo, non è tutto così: ci sono anche i tratti di fiume impervi e poco accessibili, conosciuti da pochi e frequentati da pochissimi. Eppure, quasi ovunque, c’è la sensazione di essere trattati come ospiti, quasi come clienti. Quello dei cartelli stradali è solo un esempio, forse anche banale, di un mondo che alla pesca a mosca deve moltissimo, sia in termini di tradizione che in termini meramente economici. Un’enfasi interamente riposta sulla pratica sportiva in sé, con le sue sfide, le sue difficoltà, i suoi momenti emozionanti. A sfruttare il prodotto finale, infatti, non ci pensa nessuno. Non è come nel New England, dove ogni baracchino lungo la strada serve astici e aragoste a prezzi stracciati. Se qui qualcuno chiede un filetto di salmerino al ristorante, viene preso per matto, se non addirittura per antidiluviano.

La pesca a mosca significa comunione con la natura, eleganza nel gesto del lancio, capacità di usare le imitazioni di insetto giuste, e soprattutto rilascio del pesce catturato, fosse anche il pesce della vita… Non è questa la sede per dibattere sulle implicazioni culturali ed ecologiche del gesto di rilasciare una cattura: quello che importa, è notare che nessun regolamento locale deve imporlo, perché quasi tutti lo fanno spontaneamente. Che la pesca sia intesa esclusivamente nella sua accezione “sportiva”, a discapito di quella predatoria, è testimoniato anche dal fatto che è consentita all’interno di parchi nazionali come Yellowstone, Glacier e Grand Teton, dove invece qualsiasi attività di caccia è severamente interdetta. Inoltre, la pesca alla trota è quasi esclusivamente intesa come pesca a mosca: una tecnica difficile ed economicamente impegnativa per il costo delle attrezzature, da sempre considerata la più raffinata (o la più snob, scegliete voi) di tutte. I segni della passione per mosche e trote affiorano ovunque. Un cartello alle porte di Ennis, primo paesino a nord dello sterminato parco di Yellowstone, riporta a grandi caratteri: “Benvenuti a Ennis, 5.000 abitanti e 80.000 trote”.

Sul lungofiume di Missoula, una delle città più trafficate del Montana, svettano tre enormi sculture di trote, cavalcabili come fossero il cavallo Furia. A nord di Butte, altra città di dimensioni relativamente importanti, le vie trasversali alla Highway 1 portano il nome di vari tipi di salmonidi: c’è la Chinook Road, la Coho Road, la Steelhead Road... Ma tra i tanti angoli che mi hanno strappato un sorriso, il primato va al McDonald’s di West Yellowstone, minuscolo paesino alle porte del parco: sui muri, proprio sopra ai rubinetti della Coca-Cola, sono appesi una canna, un capiente guadino e tre gigantografie di mosche artificiali. Nemmeno il luogo più standardizzato ed asettico del pianeta è sopravvissuto al debordante entusiasmo per questa pratica. Ovunque si volga lo sguardo, è più facile trovare un negozio di attrezzatura da pesca che un supermercato: posti grandi e piccoli, affollati e deserti, perfettamente ordinati o calorosamente incasinati, tutti accomunati da interminabili esibizioni di mosche artificiali vendute a vari prezzi e da gadget sempre capaci si strappare un sorriso. Ad esempio, la cassetta delle lettere a forma di pesce, in cui la posta viene direttamente messa in bocca. Solitamente, i proprietari organizzano anche gite di pesca guidate, in cui portano i clienti lungo i fiumi, nei propri punti segreti, per far provare loro l’ebbrezza di sentire in canna una trota da sogno. Difficilmente chiedono meno di 500 dollari, perché organizzare le spedizioni richiede tempo e risorse, e perché sanno che l’appassionato di pesca a mosca solitamente guarda poco al portafogli. Soprattutto, se si tratta di collezionare dei ricordi indelebili.

Certo, basta dare un’occhiata ai luoghi dove scorrono questi fiumi per capire che non serve prendere una trota di quattro chili per conservare un ricordo imperituro di una spedizione da queste parti. L’acqua cristallina, gli altopiani verdissimi, le distese di pini, caprioli e cervi che vagano come fossero cani randagi, lo sfondo con le implacabili vette delle Montagne Rocciose. Che ci si trovi nel cuore di un parco nazionale o nel mezzo di un’anonima prateria, il senso di smarrimento davanti all’immensità disabitata di questi luoghi ha sempre un impatto notevole. Ci si sente piccoli, dispersi, senza voce, alle volte anche piacevolmente impauriti dal vuoto circostante. È la dimensione “orizzontale” di queste catene montuose che le distingue da quelle a cui siamo abituati dalle nostre parti. Addirittura, se ci si trova nei parchi nazionali, può capitare di trovarsi improvvisamente circondati da mandrie di enormi bisonti, proprio quelli che vennero sterminati ai tempi della conquista del West e che solo in aree circoscritte e protette sono riusciti a sopravvivere. È capitato anche a noi di pescare tranquilli e poi, senza nemmeno accorgersi, di vedersi circondati da questi bestioni, al cui confronto una nostra mucca farebbe la figura di un gatto domestico.

Se le emozioni garantite del paesaggio sono immediate e assicurate, altrettanto non si può dire dell’esito delle battute di pesca. L’equazione tanti pesci “uguale” tante catture, per fortuna, non è sempre valida, in particolare se l’obiettivo sono le trote selvatiche, esperte e voluminose che si aggirano per queste acque. Nei fiumi, la pressione di pesca elevata e l’abbondante disponibilità di cibo (soprattutto gli invertebrati che compiono una parte del loro ciclo vitale in acqua), rendono la diffidenza dei pesci spesso invincibile. Ci vuole esperienza, conoscenza delle abitudini degli insetti e dei pesci, capacità di far lavorare le proprie esche alla profondità giusta. Sono regole di base che valgono nelle acque di tutto il mondo, non certo solo in questi luoghi, ma che vengono spesso sbattute in secondo piano dal bombardamento di foto e descrizioni delle catture memorabili effettuate da queste parti. Arrivare e improvvisare, credendo che sia tutto facile e alla portata, è un errore in cui è facile cadere, con il relativo carico di delusione. Il discorso cambia quando si affrontano le acque fuori portata, come gli innumerevoli laghi che, ad altezze impegnative, costellano le sterminate “wilderness” montuose (lett. “aree disabitate”) che si estendono tra un parco nazionale e l’altro. La più grande di esse, la Bob Marshall Wilderness, ha un’estensione di oltre 6.000 chilometri quadrati: più dell’intera Liguria.

Arrivare qui, anche all’inizio dell’estate, significa affrontare pietraie ancora innevate, temperature rigide, serpeggianti sentieri percorsi da una decina di persone all’anno (perché il pescatore americano è tradizionalmente pigro, e perché i laghi sono effettivamente più numerosi degli esseri umani). È normale che, in acque gelate per buona parte della stagione, i pesci siano molto più propensi ad attaccare le nostre esche. E cosi ci è capitato di finire davanti a pozze di quattro metri per quattro, circondate dal ghiaccio, dove, increduli, abbiamo visto trote coloratissime e di dimensioni discrete assalire senza pietà i nostri ami. Non sono certo le acque tipiche per la pesca a mosca, visto che sostanzialmente ogni imitazione, anche grezza, ottiene dei risultati laddove nel placido fiume di fondovalle avrebbe al massimo raccolto delle risa di scherno. Ma anche lo spirito escursionistico di queste risalite, e lo spirito di sopravvivenza di questi pesci, lontani miglia e miglia da quelli che si aggirano nei comodi “fishing spots” descritti prima, meritano di essere vissuti. La vita negli States ha un pregio che nemmeno il più convinto degli antiamericani potrebbe negare: la semplicità delle regole. Per la licenza di pesca non occorrono versamenti postali, marche da bollo, foto tessera: basta presentarsi in un negozio di attrezzatura e comprarne una per il tempo che si desidera pescare. Ogni Stato ha la sua, che vale solitamente in tutte le acque: unica eccezione è il parco di Yellowstone, che ha uno statuto proprio e offre un comodissimo permesso di tre giorni a 15 dollari totali per i turisti in visita. Anche i regolamenti sono stringati, comprensibili e ridotti all’essenziale, pur con qualche norma aggiuntiva che si applica solo a corsi d’acqua particolari.

In generale, la filosofia di fondo è quella di privilegiare la qualità della pesca sulla quantità e di difendere il più possibile le specie native. Quella più salvaguardata è la Cutthroat trout (Oncorhynchus clarki), affine alla trota iridea e caratterizzata in molte sottospecie da due strisce rosse perpendicolari alle branchie, che sembrano appunto due rivoli di sangue che sgorgano dalla carotide di una persona sgozzata (Cutthroat si può tradurre con “gola tagliata”). Nel Montana, c’è anche l’obbligo di rilascio della Bull trout (Salvelinus confluentus), un salmerino molto simile di aspetto al salmerino di fonte che ancor abita i principali fiumi. Per questo in moltissimi luoghi (tra cui lo splendido Glacier Park, dove la pesca può essere fatta senza licenza) si è smesso di effettuare semine di materiale adulto, che si ibridavano con gli esemplari nativi minacciando la sopravvivenza della specie. Una scelta che può far storcere il naso al pescatore avido di catture, ma che si sta rivelando a poco a poco vincente per ristabilire gli antichi equilibri che caratterizzavano queste acque. Si possono invece solitamente tenere (con limitazioni riguardo a numero e misura) le fario e le iridee, che, per quanto possa sembrare strano, sono considerate specie alloctone.

È interessante anche il rovescio della medaglia, ovvero l’obbligo di… uccisione per le specie invasive. Nello Yellowstone Lake è tassativamente vietato rimettere in libertà ogni Lake trout (Salvelinus namaycush) eventualmente catturata all’amo. Se proprio non la si vuole mangiare, occorre buttarla via in appositi contenitori che la rendano introvabile agli affamati orsi che si aggirano da queste parti. Questo salmerino, introdotto nel 1994 come pesce adulto “pronta pesca”, è entrato in competizione con le specie locali e spesso, in virtù di una spiccata aggressività, ha avuto la meglio. In particolare la Cutthroat ha risentito moltissimo della sua presenza, rimanendo decimata. Il danno ecologico è pesante, perché questa trota era il nutrimento primario di tantissimi animali che adesso si trovano in difficoltà. Non tanto perché la Lake trout non sia buona, quanto perché vive in acque profonde e ricche di anfratti, difficili da esplorare anche per gli uccelli predatori più abili nel nuoto. Altre specie native, pur difese meno strenuamente, sono il temolo e i vari tipi di “whitefish”, parente stretto del nostro lavarello di lago. Nell’inizio di “In mezzo scorre il fiume”, capolavoro letterario ambientato in Montana sulle rive del Blackfoot river, Norman McLean diceva apertamente che nella sua famiglia non esisteva un chiaro confine tra religione e pesca a mosca. Non era certo una frase blasfema, visto che per lui, suo padre e suo fratello le ore passate sul fiume erano un modo concreto di vivere la fede e l’affetto familiare. Di certo, è una frase che, almeno parzialmente, fotografa bene l’esaltazione collettiva di questi luoghi, mantenendo ovviamente su piani diversi trote e teologia (ci mancherebbe).

Posti accattivanti e avvolgenti, per la conformazione della natura e per il brivido di attraversare zone a volte mai toccate dalla presenza umana. Se a ciò si aggiunge la speranza di sentire gli strattoni di una bella trota, allora si capisce perché il richiamo diventi irresistibile. Sia prima della partenza che, purtroppo, dopo il ritorno.

Andrea Beltrama



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