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Pesca

Piccola storia della pesca nella Padania dei tempi andati

di Muratori V.

Intere generazioni di poveri contadini hanno tratto lavoro e sussistenza dalla fauna ittica del maggior fiume italiano

Del Po e della Padania si sta facendo un gran parlare, il grande fiume è diventato un protagonista della politica dopo esserlo stato, nei secoli, della pesca e dell’agricoltura le quali, specialmente nelle zone del delta, furono attività indissolubilmente legate alle sue acque, ai suoi capricci e periodicamente, purtroppo, alle sue piene disastrose.

Oggi del Po si parla (politica a parte) soprattutto per un suo sfruttamento a fini irrigui e, da qualche tempo, come di via d’acqua con progetti di carattere autostradale: rendere navigabile tutto il suo corso padano per consentire trasporti d’ogni tipo di merci a bassi costi e sottraendo traffico alla congestionatissima viabilità del Nord. L’attività pescatoria è pressoché scomparsa sia per l’inquinamento delle acque specialmente nel medio e basso corso, che per lo scarso mercato che oggi ha il pesce d’acqua dolce.

Eppure fino a poche decine d’anni fa centinaia di famiglie del delta basavano parte dei loro poveri redditi sulla pesca fluviale di carpe, tinche, pesci gatto, persici, cefali, anguille per non parlare del re del Po, lo storione, la cui cattura, anche di un solo esemplare (di peso medio sugli 80-100 kg) bastava a risolvere per l’invernata i problemi di bilancio di un’intera famiglia contadina.

A praticare la pesca fluviale, con strumenti spesso primitivi, erano tutti i componenti del nucleo familiare, dai bambini che trascorrevano intere giornate sugli argini a gettare la lenza per mettere insieme una frittura di alborelle ai "passatori" che traghettavano merci e passeggeri fra le due rive e nei lunghi intervalli disponevano nasse di vimini sui fondali per insidiare anguille e gamberi, agli addetti ai mulini galleggianti che nelle pause di lavoro calavano bilancini e tramagli.

Una minuziosa descrizione di queste e altre rudimentali ma efficaci tecniche piscatorie è contenuta, insieme a rare e suggestive fotografie d’epoca, nello splendido volume di Dino Felisati dal titolo La fatica per immagini. L’autore racconta il lavoro contadino in tutte le sue espressioni (agricoltura, zootecnia, pesca, ecc.) nelle zone più povere e degradate della bassa padana con accenti di grande rispetto per la fatica profusa da intere generazioni di povera gente per la quale il lavoro rappresentava non soltanto fonte di sostentamento ma un valore vero e proprio da onorare diuturnamente.

La forma di pesca più diffusa – rammenta Felisati – era quella con la canna che poteva essere praticata per ogni stagione dell’anno.

L’attrezzo non aveva nulla a che vedere con le sofisticate canne odierne fatte di materiali d’alto pregio, leggerissime e straordinariamente robuste, di varia struttura e lunghezza secondo il tipo di pesca praticata. Allora si andava sull’argine armati di una cannaccia di bambù, al più dotata di un "cimino" (la parte terminale) sottile per rendere più elastica la punta e più pronta la "ferrata" quando il pesce abboccava. La lenza era di cordino sottile e nella parte terminale di un crine di cavallo al quale si legava l’amo. Si pescava con un galleggiante (un pezzo di sughero) o a fondo con la lenza appesantita da un piombo. Come esca si usavano lombrichi, o granturco, polenta, mollica di pane. Per attirare i pesci si gettava in acqua una pastura a base di granturco, sangue, polenta spezzettata e arricchita da aromi vari. Ciascuno aveva una sua ricetta che teneva gelosamente segreta, così come non si rivelavano a nessuno i luoghi di pesca.

Con canna e lenza si insidiavano soprattutto carpe, tinche (con la pesca a fondo), cavedani e altri ciprinidi (con la pesca a mezz’acqua). Presso la foce in mare poteva accadere di agganciare anche qualche grosso cefalo costretto dalla fame a superare la sua innata diffidenza. Nelle primissime ore del mattino o a sera non era infrequente catturare qualche pingue anguilla.

Altro tipo di pesca ampiamente praticato soprattutto nei periodi di piena era quello col "bilancino", una rete quadrata di 3 o 4 metri di lato, sostenuta da archi metallici.

Pescatori più esperti facevano ricorso alle nasse di vimini che venivano disposte al fondo nelle zone ove si presumeva fosse più ricco il transito dei pesci.

I veri professionisti usavano, invece, reti e tramagli anche di grandi dimensioni lunghi centinaia di metri che venivano calati la sera e ritratti la mattina. Nell’epoca delle migrazioni di cefali e cheppie le catture erano particolarmente abbondanti.

In primavera, infine, si apriva la grande caccia al "re del fiume": il pregiatissimo storione. Gruppi di pescatori tendevano le reti e passavano giorni e notti in barche ancorate nella zona di pesca in paziente attesa che il grande pesce s’infilasse nelle trappole.

Velello Muratori



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