L’autunno siculo è assolato e dolce come i frutti che spuntano dai filari, pieni di sottili e insidiose spine, che sembrano voler dissuadere chiunque dal raccoglierli. Quasi un miracolo della natura, senza tronco, senza rami e senza foglie. I fichi d’India, riconoscibili da tutti per le loro grandi pale carnose, sono la pianta cactacea più diffusa in Sicilia, ma non sufficientemente sfruttata per le reali potenzialità, soprattutto dei frutti di prima fioritura.
Ne è convinta Rosa Palmeri, dottoressa di ricerca e docente al Dipartimento di Scienze e tecnologie alimentari dell’Università di Catania, che da tempo è impegnata nello studio della lavorazione ecosostenibile dei fichi d’india.
«Il fico — ci racconta — si accontenta di poco, resiste al caldo e alla siccità, può sopravvivere addirittura anni senza acqua. Assorbe elevate concentrazioni di anidride carbonica, il gas serra tra i più responsabili del cambiamento climatico».
Il nome, anche quello scientifico, “Opuntia Ficus-Indica”, rivela una provenienza lontana, che rimanda a quelle terre scoperte da Cristoforo Colombo e poi colonizzate dagli spagnoli. Sacro agli Aztechi, il fico d’India arrivò in Europa dagli altopiani messicani intorno alla fine del XVI secolo. Coltivato inizialmente come semplice pianta ornamentale nei giardini e negli orti della nobiltà e dei conventi, divenne poi parte del paesaggio per volere dei Borboni.
Grazie alla sua capacità di crescere in condizioni estreme, venne adoperato come efficace frangivento e impenetrabile divisorio dei campi: un muro invalicabile, alto fino a 4 metri.
Nel tempo del fico si imparò ad utilizzare tutto: le pale come cocci nelle case, la linfa per cicatrizzare ferite o per guarire l’ulcera, i fiori per ottenerne un decotto diuretico e purificante. Ricchi di zuccheri, calcio, fosforo e vitamina A, i frutti, invece, insieme al pane, erano la classica colazione estiva dei contadini.
Una pianta dalle mille virtù, insomma, che però, nonostante gli usi storicamente noti, non smette di sorprenderci anche oggi. I fichi d’India hanno rivelato la loro efficacia anche come conservanti naturali, alternativi ai nitrati. Il merito della scoperta va al team della dottoressa Palmeri, che ha pubblicato due ricerche sull’impiego dell’estratto di fichi per conservare naturalmente carni crude. L’efficacia antibatterica è stata sperimentata prima sulla carne cruda di bovino affettata, poi sugli hamburger crudi di manzo.
In entrambi i casi sono stati osservati risultati sorprendenti sul mantenimento del colore, sulla consistenza (durezza, coesione ed elasticità) e sul rallentamento della crescita microbica durante la conservazione in condizioni di refrigerazione domestica. Le ottime performance sono da attribuire alla ricca dotazione di sostanze antiossidanti e antimicrobiche presenti, in particolare: polifenoli, betacyanin e betaxantina.
I frutti più grandi e più belli, i bastardoni, maturano all’inizio dell’autunno e sono il risultato di un attento lavoro di selezione dell’agricoltura che, tra la fine di maggio e i primi giorni di giugno, stacca tutti i giovani frutti per fare rifiorire il cactus una seconda volta. È proprio sui primi frutti, quelli meno pregiati, che si è concentrata la ricerca dell’Università di Catania.
Chiara Papotti
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