Mi riferisco spesso alla cucina chiamandola “laboratorio”.
Sento definire altrettanto spesso la cucina “l’anima della casa”.
Che sia professionale o domestica, sono davvero due posti diversi?
È forse sbagliato far passare dall’anima anche quello che ha bisogno di un approccio tecnico?
Negli incontri quotidiani, nei corsi amatoriali, nei libri di cucina, nel confronto coi colleghi, e anche dalla spesa che spio nei carrelli del supermercato, vedo la cucina essere percepita sempre più come assemblaggio e non come trasformazione: non si cucina, si mettono assieme cose.
Prodotti semilavorati, già porzionati, conditi, precotti, hanno soppiantato una reale varietà dell’offerta. Lo si vede anche nella raccolta differenziata casa per casa: il sacco della plastica è grande e resistente, quello dell’organico è piccolo e delicato e non è contemplato che abbia da buttare le ossa esauste di un cappone intero o la parte legnosa di un bel mazzo di cavolo nero.
Giustifichiamo questo cambiamento in nome del poco tempo libero, ma… quel prodotto pronto ad essere assemblato con un altro chi l’ha trasformato per me? E perché l’ha trasformato così?
L’ha fatto passare dall’anima dello stabilimento o solo dai macchinari?
Davvero questo maneggiamento è un valore aggiunto che ci consente di risparmiare del tempo o mi toglie il tempo di qualità nel quale mi prendo cura del mio corpo attraverso il pasto?
On-line ho visto una influencer prendere della bresaola confezionata, farcirla di formaggio morbido, arrotolare la fetta e chiamarla “la mia ricetta”. Non un riferimento al prodotto e al produttore.
Siamo nel 2023. Quel video banale mi ha prostrato perché le vaschette di salume possono essere sostituite da un sottovuoto domestico ed una piccola affettatrice compatta ed economica e della bresaola si dovrebbe provare a parlare in maniera diversa.
La bresaola è un salume di bovino tipico della Valtellina ed alcune zone della Val d’Ossola.
Si ricava da punta d’anca, magatello e sottofesa. Il pezzo di carne, ben nettato dalle membrane muscolari viene cosparso della concia: sale, spezie, erbe aromatiche e vino rosso. Si lascia marinare per alcuni giorni, poi si avvolge in un budello, si lega e si mette ad asciugare e stagionare.
Al taglio è rossa scura e con venature di grasso più o meno intense, a seconda dell’animale d’origine.
Ma davvero gli involtini di bresaola con il formaggio dentro sono percepiti come una ricetta?
E che ne è stato dell’inchiesta sull’origine estera della carne per la realizzazione della bresaola?
E chi lavora cercando di produrre il miglior prodotto possibile come sopravvive?
Queste domande mi martellano le tempie mentre mi poggiano appena tagliata, sul pane cotto a legna, condita con un filo d’olio extravergine alla cenere di ginepro, la fetta di bresaola più buona della mia vita.
Prendo il pezzo di bresaola ancora da affettare in mano, è consistente senza essere sodo, un rosso intenso che vira al bruno come certi velluti di seta, marezzata come una filigrana d’argento, profumatissima e sapida, ne voglio ancora.
Sono in uno stabilimento esemplare che alleva gli animali che trasformerà, dove tutti i dipendenti incontrati sono entusiasti di come lavorano e dei prodotti che realizzano: uno stabilimento con l’anima.
E allora mi esorto a far pace con certi ragionamenti, a cercare di essere meno polemica, a non sminuire il mio essere una cassa di risonanza per chi produce con onestà e rispetto della storia di un prodotto, di un territorio d’appartenenza e di un consumatore finale.
Mi ricordo quando, durante le gite, ci spedivamo cartoline.
Quando ne arrivava una a casa si guardava distrattamente la fotografia che rappresentava l’idea di un luogo, la si girava subito per leggere il messaggio scritto a penna dedicato a noi.
Non sarà mai possibile sapere tutto di quello che mangiamo. Dovremmo scegliere cosa comprare cercando quell’intenzione, di un pensiero sincero dedicato a noi dentro ad ogni prodotto.
Alessia Morabito
Immustrazione di Alessia Serafini
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