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Cibo e letteratura da Omero a Proust

di Bertacchini R.

Nell’Odissea ricorrono spesso formule come “dopo che si furono tolti la voglia di mangiare e di bere”. Omero, quasi condividendo il piacere dei suoi personaggi, sa benissimo che il nutrimento è indispensabile alla sopravvivenza, fin dal rapporto madre-figlio. Ma sa anche che il cibo ha molte altre funzioni: può diventare segno, linguaggio, comunicazione. Non sorprende, quindi, la sua particolare attenzione prestata, tra mari e isole, alle provviste per il viaggio. Quando deve imbarcarsi alla ricerca del padre, Telemaco chiede alla nutrice Euriclea dodici anfore di vino dolce e venti misure di farina di frumento. Anche la ninfa Calipso caricherà la zattera di Ulisse con un otre di vino nero, un altro di acqua e cibi cotti gustosi in abbondanza.

L’Odissea è soprattutto interessata alla produzione del cibo. Vi troviamo agricoltori, pastori, cacciatori. Nello splendido orto dei Feaci fioriscono e fruttificano “peri e melograni, meli e fichi dolci, ulivi rigogliosi, una vigna dai molti grappoli, aiuole di erbaggi di ogni sorta”. Sono pastori lo stesso Ulisse e i giganti ciclopi. Nell’antro di Polifemo trionfano “i graticci carichi di formaggi, gli stabbi pieni di agnelli e capretti, in un recinto i primaticci, in un altro i mezzani, in un altro ancora i più teneri; traboccano di siero i vasi, le secchie e le conche”. I sacrifici e i rituali esigono determinati cibi e bevande. Cosce di toro in sacrificio a Poseidone. Grani d’orzo quando si invoca Atena. Giovenche da sacrificare a Zeus. Per accedere all’Ade, per entrare nell’oltretomba, Ulisse dovrà offrire una libagione a tutti i morti: “prima una bevanda di latte e miele, poi il dolce vino e poi ancora acqua”; dovrà quindi sacrificare loro “un montone e una pecora nera”.

Balzo avanti nei secoli e nei costumi. Eccezionale accuratezza documentaria e splendide capacità rievocative contrassegnano la voce monografica Cibo e letteratura nella Garzantina Letteratura, Milano, edizione 2007. Alla sequenza omerica dell’amorosa Calipso che offre da mangiare e da bere a Ulisse per renderlo “immortale e immune da vecchiezza”, segue una delle pagine letterarie più celebri e citate: il sapore e il profumo della madeleine che riporta alla memoria di Marcel Proust la sua infanzia. Questa sensazione e la necessità di trasformarla in scrittura dà origine all’intero ciclo Alla ricerca del tempo perduto, romanzo dove i paragrafi legati al cibo sono numerosi e intensi. Basti pensare al ruolo centrale di Franoise, la cuoca della zia Lèonie. Memorabile la passione per il gelato dell’amata Albertine e quella di Odette de Crècy per il cioccolato. Riccamente dettagliate le descrizioni del ricevimento in casa di madame de Villeparisis e del pranzo della duchessa di Guermantes. La madeleine proustiana, un piccolo dolce morbido in forma di conchiglia inzuppato nel tè, esemplifica bene la complessa relazione tra civiltà letteraria e cibo.

Anche l’altra grande opera che apre il Novecento, l’Ulisse di Joyce, inizia illustrando i gusti del protagonista Leopold Bloom, certo meno raffinati di quelli di Proust: “Mr. Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e volatili. Gli piacevano la spessa minestra di rigaglie, i gozzi piccanti, un cuore ripieno di arrosto, fette di fegato impanato e fritte, uova di merluzzo fritte. Gli piacevano più di tutto i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un sottile gusto di urina leggermente aromatica”.

Alla simbiosi di parole e sapori, alla confluenza tra parola e gusto si attengono percorsi curiosamente drastici come il Manifesto della cucina futurista (1930) in cui Marinetti chiedeva “l’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana”, a favore di una sintesi alimentare più attenta alla chimica. Connesso all’itinerario lieto dei cibi, ecco il tema inverso e perverso della fame, in partenza dalle fiabe e dalle maschere della Commedia dell’Arte cinquecentesca. Arlecchino e Pulcinella trovano la loro energia di personaggi proprio in una fame atavica, in una carenza mai soddisfatta di cibo e di sesso. Al “paese della fame” si affianca la fantasia compensatoria del Paese di Bengodi o di Cuccagna, dove si ergono montagne di formaggio e maccheroni, mentre scorrono fiumi di vino. Alla travolgente abbuffata del gigante rabelaisiano Gargantua si contrappone, in chiave di fame metafisica, la misera carota che si dividono Vladimiro ed Estragone in Aspettando Godot di Beckett. Da sottolineare i libri espressamente costruiti intorno a un pranzo, dal Simposio di Platone al Satyricon di Petronio, con le cinquanta portate che invadono la famosa cena di Trimalcione.

Sorprendentemente numerosi i detective patiti della buona tavola, dal Maigret di Simenon a Nero Wolfe di Rex Stout, dal Pepe Carvalho di Manuel Vasquez Montalban al Commissario Montalbano di Andrea Camilleri. Le loro indagini vengono spesso inframmezzate da gustosi manicaretti, di cui si possono leggere — e dunque preparare — anche le ricette, provando così, assaporando, le stesse sensazioni dell’eroe. I romanzi “golosi” e “gastronomici” affidano al palato un ruolo centrale. Negli ultimi anni, numerosi autori, anzi più spesso autrici, hanno coniugato il piacere della lettura con l’evocazione di piatti appetitosi. Capostipite della narrativa che prende alla gola è senz’altro Dona Flor e i suoi due mariti (1966) di Jorge Amado. Segue Dolce come il cioccolato (1980) della messicana Laura Esquivel, in cui i due giovani protagonisti, impediti a consumare il loro amore, comunicano i loro sentimenti attraverso manicaretti vari e galeotti. Dal Cile le fa eco Isabel Allende con Afrodita (1997), sottotitolo Racconti, ricette e altri afrodisiaci. La forza comunicativa e simbolica del cibo coinvolge diversi romanzi di Joanne Harris: Chocolat (sul cibo degli dei), Vino, patate e mele rosse, Cinque quarti d’arancia.

Naturalmente il genere che domina l’intersezione tra pagina e palato è da sempre quello dei libri di cucina veri e propri, dei ricettari che hanno il loro antenato nei dieci libri De re coquinaria di Apicio, vissuto ai tempi dell’imperatore Tiberio. Con la Fisiologia del gusto (1825), il francese Anthelme Brillat-Savarin fonda la figura benemerita dell’attuale gastronomo. A sua volta La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891) di Pellegrino Artusi crea — a partire dalle cucine regionali nella penisola — una cultura gastronomica nazionale legittimamente, piacevolmente condivisa. “Re dei cuochi e cuoco dei re”, fondatore e direttore dell’Hotel Ritz di Parigi (frequentato assiduamente da Proust), il francese George Auguste Escoffier razionalizza e organizza le cucine. Nella prefazione alla sua Le Guide Culinaire (1917) sostiene che i menu non devono essere semplici elenchi di cibi, ma formare una “leccorniosa orchestrazione”: piatti, pietanze e contorni saranno loro gli artistici, congeniali spartiti della musica in tavola.

Renato Bertacchini



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