Il problema del reperimento del personale sta diventando un punto nodale dell’attività di impresa e si manifesta ad ogni livello di competenza. Durante il lockdown, quando in Italia i licenziamenti erano bloccati per legge, ci si aspettava un ritorno alla vita, anche professionale, con una crisi economica senza precedenti e, a seguire, dismissioni di massa. La storia ci ha invece consegnato un quadro totalmente diverso, a conferma del fatto che, anche chi fa previsioni supportate dai migliori e più certi elementi economici e sociali, non sempre ci azzecca.
Quello che infatti è accaduto è esattamente l’opposto. Nel dopo Covid, quando nei principali Paesi occidentali sono venute meno le restrizioni, 30 milioni di persone hanno lasciato il lavoro di loro spontanea iniziativa.
Le imprese avevano un gran bisogno di personale, anche per far ripartire le attività che erano rimaste ferme, in certi casi accumulando impegni che non avevano potuto rispettare per il lockdown. Per comparti come l’agricoltura e l’agroalimentare, invece, il problema del personale in eccesso non c’è di fatto mai stato. In quell’ambito, infatti, la sofferenza si è registrata per ovvi motivi nella ristorazione e in settori circoscritti come quelli del vino, ma, all’indomani della pandemia, si è assistito ad un ritorno alla convivialità persino superiore a quello pre-Covid. In quel momento in Italia è comparso — complici anche alcune misure assistenzialistiche per cui stare a casa poteva essere più conveniente che lavorare — un oggettivo problema di carenza di lavoratori, a tutti i livelli, in tutti o quasi i settori. E il calo demografico, che pian piano sarà sempre più accentuato, sta già mostrando i suoi effetti e darà maggiori problemi col passare del tempo.
Autorealizzazione e ricerca della serenità
Ci sono poi altri elementi che rendono la ricerca di personale, al pari del mantenimento della forza lavoro in azienda, sempre più problematica. È così che le imprese si sentono costrette a rendersi attrattive non solo agli occhi del mercato, ma anche a quelli dei lavoratori. Sono due cose che si intersecano perché, in linea di massima, il fatto di avere un certo successo è un elemento che richiama e/o trattiene più collaboratori in azienda. Il quadro attuale è di un mondo in cui i lavoratori, dove più, dove meno, sono nelle condizioni di scegliere e di avanzare richieste, non solo economiche, e di rivolgersi a coloro che ritengono più rispondenti alle proprie ambizioni e inclinazioni.
Il lavoro non è più considerato fondamentale nella propria esistenza e non rappresenta l’unico elemento che determina l’autorealizzazione personale. Pertanto quella che si fa oggi non è una semplice ricerca di lavoro, ma una ricerca della serenità. A dirlo è Randstad, voce autorevole e importante del settore che, con un’indagine realizzata su 27.000 individui in 34 Paesi, ha pubblicato il Workmonitor 2024 (www.randstad.it).
Il primo dato che emerge dallo studio, ad esempio, è che oggi la scelta del lavoratore ruota attorno a tre parole: Ambition, Balance, Connection. L’ambizione è quella che sta al cuore delle scelte di carriera ma che fa i conti con la necessità di un miglior equilibrio tra vita privata e lavorativa e che mette la prima al primo posto e che pertanto porta alla ricerca di flessibilità, equità e formazione. Infine, connessione perché i talenti, più di tutti, oggi chiedono ai propri datori di lavoro di plasmare in maniera differente i rapporti, prestando attenzione ai loro bisogni e desideri. E da questo partono.
I dati sono chiari: ai primi tre posti nella lista di ciò che viene ritenuto maggiormente importante per il proprio lavoro attuale e futuro, nel campione italiano, troviamo l’equilibrio tra vita e lavoro (scelto dal 94% dei rispondenti), lo stipendio (93%) e la sicurezza del posto di lavoro (90%). La pandemia ha inciso fortemente nel ristabilire la lista delle priorità delle persone, accrescendo il peso attribuito alla propria vita fuori dal luogo del lavoro, sebbene lo stipendio continui ad avere una sua importanza.
Il campione italiano esaminato evidenzia inoltre tutto lo scoramento che caratterizza il Paese in questo momento storico in cui c’è un forte disallineamento tra le competenze richieste dal mercato del lavoro e quelle possedute da chi si offre. Il nostro è un contesto in cui il mondo del lavoro dialoga poco sia con quello della formazione, sia con quello dei talenti.
L’arrendevolezza dei lavoratori del Belpaese si nota ancor di più relativamente agli aspetti che concernono la flessibilità, ancora oggi considerata un lusso. Non a caso rispetto alla media globale in Italia si mostra una maggiore disponibilità ad accettare lavori che non ne offrono e anche chi lavora da remoto ha investito significativamente meno nell’adattare in maniera sostanziale la propria vita al lavoro da casa, non avendo certezze che lo smart working si possa considerare condizione duratura o permanente.
D’altronde il lavoro da remoto mantiene un suo fascino anche laddove non è agevole, perché è pur sempre una modalità che permette di risparmiare tempi e costi di trasporto, aumentare il proprio tempo libero, limitare la necessità di abbigliamento, i pasti fuori casa e molto altro.
La demotivazione diffusa influisce negativamente non solo sul benessere della persona ma anche sulla sua produttività. Rispetto a un anno fa, oggi solo per il 72% degli Italiani il proprio lavoro è importante nella vita (in calo di 5 punti). Si dice “motivato” nel ruolo attualmente ricoperto il 60%, con 9 punti in meno rispetto ad un anno fa, e solo 51%, invece, si dichiara ambizioso per la propria carriera.
La domanda dunque è questa: cosa rende attraente un posto di lavoro?
Oltre agli elementi citati, relativi all’equilibrio tra professione e vita privata e alla retribuzione, gli intervistati hanno messo in evidenza aspetti un tempo meno richiesti come la sicurezza del lavoro e il fatto di sentirsi realizzati, ma anche la flessibilità di orario, il numero di giorni di ferie e, infine, la formazione e l’assicurazione sanitaria. In questa graduatoria l’opportunità di un avanzamento di carriera (come una promozione o il passaggio a un nuovo ruolo) è al nono posto e supera di poco la politica sui congedi parentali, i valori del datore di lavoro e la possibilità di operare da remoto.
Stando sulle ambizioni dei lavoratori si scopre che non tutti vogliono arrivare ai ruoli apicali. Solo un terzo dichiara di volere ricoprire ruoli manageriali e solo una bassissima percentuale sogna di diventare il capo dell’azienda nella quale lavora. La mancanza di opportunità di carriera si colloca come quinta motivazione alle dimissioni e si registra pur sempre dopo fattori come un ambiente non piacevole, un lavoro che non si adatta alla propria vita personale e il basso stipendio. Stessa cosa si riscontra per il fatto di accettare o meno un nuovo lavoro, la cui decisione finale è data in buona parte dalla mancanza o meno di sicurezza del lavoro, dalla sua relativa influenza sugli equilibri con la vita personale, lo stipendio e la presenza o meno di benefit.
La formazione è ricercata dal 79% degli Italiani e, tra i diversi bisogni di apprendimento oggi dichiarati, quella sull’intelligenza artificiale è richiamata dal 34% degli intervistati.
E se da una parte c’è il problema di trovare nuovo personale e soprattutto di trovarlo motivato e partecipe, dall’altra è necessario trattenere le persone in azienda, tanto più se sono valide. L’imprenditore può far tesoro di poche regole che chi ha a cuore la propria azienda e quindi anche i propri collaboratori conosce e non deve ricercare nei manuali sul tema. Le persone rimangono nei contesti di lavoro dove prevale un clima sereno e dove all’occorrenza possono contare su supporto e sostegno, talvolta anche semplicemente ascolto.
Al pari di quanto accade per il successo o meno di un’azienda dove la mortalità maggiore si registra nei primi due anni di vita, anche per i dipendenti, i primi 18 mesi sono fondamentali. Un anno e mezzo è un tempo in cui avviene la fidelizzazione del collaboratore o in cui si comprende, da entrambe le parti, che il rapporto non si può consolidare. Ma esistono anche nuove forme di abbandono che prevedono il distacco dal lavoro senza perderlo in maniera formale: chi è fortemente deluso e demotivato spesso sceglie semplicemente di essere improduttivo. Incrocia le braccia, fa il minimo sindacale, mostra riottosità per ogni compito, vecchio o nuovo che sia. Ma non si dimette.
Chi non è più motivato andrebbe invece ricoinvolto perché perdere un dipendente non è solo una sconfitta per l’azienda, ma anche un costo importante. Si perdono risorse, tempo, denaro, energie per introdurlo e formarlo, ma ci sono anche oneri per la sostituzione che vanno da un minimo della metà del costo annuo di quel lavoratore, a due volte il salario annuo. Pertanto le dimissioni che si possono evitare vanno scongiurate, perché sono deleterie.
Azioni concrete possono essere la verifica dei livelli intermedi dei rapporti. Oggi soprattutto nelle aziende strutturate, dove la relazione tra dipendenti e imprenditore è mediata da figure di responsabilità, è probabile che il dipendente non voglia lasciare l’impresa in sé ma lo fa a causa dei contrasti col proprio superiore, che non è sempre un contrasto col proprio datore di lavoro. Ma a pagare è l’impresa.
Il riconoscimento e la correzione degli errori sono elementi importanti almeno quanto il coinvolgimento nelle scelte aziendali, piccole o grandi che siano e in operazioni elementari quanto in quelle più complesse. Che non significa farsi condizionare dai collaboratori o chiederne il permesso nel fare le attività ordinarie e straordinarie. Significa far partecipare il collaboratore ad un processo operativo che in un modo o nell’altro lo coinvolgerà e per la riuscita del quale è meglio avere l’appoggio pieno.
In un mondo in cui la persona che cerca lavoro ha il potere di scegliere perché l’offerta è tanta e la domanda è sempre meno, chi si accinge ad entrare in un nuovo contesto lavorativo di quell’impresa vuole sapere tutto o quasi e decide in base a molte cose, non ultime la mission, il posizionamento nel mercato, la visione dell’imprenditore e altro ancora. Le relazioni e le connessioni sono diventate elementi cruciali all’interno delle imprese. Lo sono ancor di più perché oggi si devono gestire processi complessi, compresa la convivenza in uno stesso ambiente di lavoro di più generazioni dove la visione, la spinta e le dinamiche che si possono creare sono il frutto di relazioni e compromessi tra soggetti che possono essere anche molto distanti tra loro sotto innumerevoli punti di vista.
E all’interno di un microcosmo come quello lavorativo, questa convivenza può essere vincente o deleteria a seconda di come la si gestisce.
Infine, giova ricordare che le risorse umane sono sempre un elemento fondamentale dell’impresa e che un investimento su di esse può avere un enorme ritorno, non solo dal punto di vista economico. I collaboratori — che siano di lungo o di breve corso — possono essere i migliori partner o i peggiori nemici per l’impresa. Per questo vanno scelti con cura e fidelizzati, al pari di clienti e fornitori.
Sebastiano Corona
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