A/lpaca. Un nome che, anche senza barra obliqua, sarebbe comunque curioso per una band mantovana che suona un nevrotico quanto affascinante incrocio tra kraut e psych. Nulla a che vedere con la placidità di questo camelide di origine Sudamericana. Ho quindi chiesto a Christian Bandinelli, voce e chitarra del quartetto virgiliano, il perché di questa sigla. Mi fa sapere che è stato scelto all’inizio del progetto, quando facevano un genere più indie e tranquillo, risultando così un’associazione congeniale per quanto non ordinaria. Nel tempo le cose sono decisamente cambiate o, per meglio dire, hanno subito una deviazione: al nome è stato allora aggiunto uno slash, col risultato di renderlo ancora meno ordinario.
Anche l’allevamento e il consumo di carne di Alpaca hanno visto netti cambiamenti negli ultimi decenni, prova ne sono i diversi centri presenti sparsi per il mondo. Consideriamo che l’addomesticamento dell’alpaca è tra i più antichi, risalendo a circa 5.000 anni fa. Lungo tutto il periodo precolombiano, compreso l’impero Inca, fu centrale per l’economia attraverso il suo utilizzo come animale da soma, preziosissima fonte di proteine dalla sua carne e per la sua piacevole lana senza lanolina. L’invasione europea li confinò, assieme ai lama, sulla cordigliera andina, sostituendoli con cavalli e pecore.
Grazie agli Indios sono arrivati fino a metà dell’Ottocento, quando un commerciante britannico li importò nel Vecchio Continente principalmente per la qualità della lana. Oggi il Sudamerica è ancora il continente più ricco di esemplari con Perù e Bolivia in testa (rispettivamente 2,5 milioni e 500.000 capi), ma sono presenti sia in Australia e Nuova Zelanda (più di 100.000) come in USA e in Europa (soprattutto in UK e Svizzera).
Da noi si partì solo nel 1997 con un allevamento in Umbria, per mano di Gianni Berna, anche fondatore di “Italpaca”, associazione che si occupa di assistere gli allevatori, creando e gestendo in particolare il registro anagrafico, essenziale per il progressivo miglioramento del patrimonio genetico.
Se al di fuori del continente sudamericano l’obiettivo rimane principalmente quello della produzione di lana, negli ultimi tempi l’interesse per la carne di questo camelide si sta diffondendo. Soprattutto in Australia, con allevamenti dedicati alla produzione di carne (“LaViandé”, tra le società maggiormente attive a livello internazionale, propone carcasse intere o diversi tagli da animali allevati al pascolo), e nel Regno Unito, dove l’importazione è decisamente regolare, ma anche grazie alla nascita di ristoranti peruviani al di fuori dei propri confini, alla ribalta nei circuiti dell’alta cucina internazionale(attualmente il “Central” di Lima guida la classifica di The World’s 50 Best Restaurants, nella quale figurano altri tre locali peruviani: “Maido”, “Kyolle” e “Mayta”).
La carne di Alpaca è di un naturale color rosso ciliegia, ha sapore gradevole tendente al dolce. Quella di esemplari sottoposti ad ingrasso invece diventa rosso cremisi e ha un sapore più deciso.
La carne secca di alpaca è la presentazione più diffusa ed è chiamata a scatti o chalona. Si ottiene attraverso una tecnica di salatura ed essiccazione al sole — tra i 15 e i 20 giorni — che ha origine nelle antiche culture andine ed è rimasta viva fino ad oggi. È molto comune in piatti come l’olluquito con charqui, la zuppa chairo, il charquicán e alcune varianti di seco e ocopa.
Tradizionalmente utilizzata in preparazioni come la pachamanca (soprattutto nella zona andina), stufata e come arrosto in stile Huanta, oggi si può trovare in preparazioni più moderne con diversi tagli tra cui filetto, controfiletto, girello o spalla, scamone e bistecca, ecc…
C’è quindi molto potenziale per la creatività nell’utilizzo di questa carne in molti pasti che richiedono carne rossa. Salvia, aglio, coriandolo e pinoli sono abbinamenti che ne esaltano il gusto. Partendo dal fatto che gli animali allevati al pascolo hanno mediamente quasi l’80% di tessuto muscolare e solo l’1% di tessuto adiposo (il restante è tessuto osseo), siamo di fronte a carne con pochi grassi (1,5-4,5%), bassi livelli di colesterolo e ricca di proteine (21-26%). Negli ultimi tempi è sempre più comune vedere in alcuni ristoranti l’alpaca trasformato in un anticucho, alla griglia o in uno stufato a lunga cottura accompagnato con la quinoa o la pasta.
E sì, l’alpaca sputa. Ma solo come difesa, dopo aver cercato di sfuggire alla fonte di stress, sputando specialmente verso i membri del proprio gruppo. Cosa che mi auguro non accada tra i quattro membri di A/lpaca…
Pessime battute a parte, i ragazzi — visti suonare dal vivo più volte —, hanno dato la netta sensazione di essere gruppo coeso, focalizzato al massimo dell’espressione della loro musica. Esiste in fondo un’analogia tra il gruppo della Bassa padana — il cui esordio, “Make It Better”, viene distribuito internazionalmente attraverso tre diverse etichette e relativi formati (We Were Never Being Boring Collective per Italia e Stati Uniti, Sulatron Records per la Germania e Sour Grapes Records per il Regno Unito) e il bizzarro camelide andino arrivato Oltreoceano passando anche in Oceania, da cui hanno preso il nome.
Radicati nell’urgenza di narrare la noia della provincia, ma facendolo attraverso suoni che si nutrono di kraut-rock, garage e psichedelia, arrivano a coinvolgere un pubblico che non conosce limiti geografici e che idealmente si potrebbe trovare sotto il palco del Beat Club, il brano che apre il disco come un manifesto. Meno di tre minuti per raccontare tra ritmica motorik e riverbero a saturare ogni ideale centimetro del locale in cui sudiamo in un ballo nevrotico, le luci bianche e irregolari sono la cantilena acida delle parole a cui ci si affida senza opporsi, come guidati.
Ha invece natura meno claustrofobica e la asseconda arrivando a quasi 7 minuti perché non può essere compressa, trattenuta, la canzone che dà il nome al disco: It’s Not Repetition, It’s Discipline, citando The Fall, e la ritmica si alimenta secondo dopo secondo, come una costruzione fluida in cui emergono incisi di organetto e fendenti di chitarre trasfigurate da pedaliere sovraccariche di effetti.
Non rallenta e continua macinare ma assumendo tinte più scure senza perdere in dinamismo la crepuscolare Inept. Sterza su un drumming tribale che la accende Hypnosis, poi si riempie prendendo fiato di chitarre veloci e affilate per inarcarsi come palazzi in Inception su tastiere verticali.
Slave Antenna Ray è un segnale rotto, intermittente, di un ripetitore, uno strumento analogico, uomo e macchina, un basso gommoso su cui far rimbalzare tra le tastiere arabeggianti quattro frasi, due scioglilingua, fino ad aggrovigliarsi e deragliare intersecazioni distorte
Echi 80’s, post wave, sembrano respiri affannati di un inseguimento messo in scena da basso e chitarra, Chamaleon vive di un ritmo che non smette di spingere, una corsa nel buio. È invece una luce filtrata da lenti colorate quella che illumina I Am Kevin Ayers, omaggio dichiarato a quella Canterbury dove la dimensione rurale era il fertile terreno della psichedelia. Soft Machine quindi, ma non dimenticando Syd Barrett in una struttura semplice ma incisiva.
Parte invece dritta e ignorante Citadel, che impenna e sbanda garage come certi Oh Sees. Mentre sgasa, non riesci a smettere di immaginare come possa essere ancora più trascinate suonata live. Ad amplificare questa sensazione ci pensa, seppure con modalità differenti, la conclusiva Locomotiv: sette vorticosi minuti di ritmiche sezionate come a comporre tessere di un mosaico dinamico dove le chitarre prima seguono poi scelgono la direzione da prendere.
Dentro e fuori dal club, non solo idealmente, il beat ossessivo delle canzoni di Make It Better si muove vivido e allucinato, in un contesto uniforme di cui si nutre e che espande. In maniera organica i brani vivono così una naturale estensione nei live, appropriandosi di energie che contribuiscono a creare: “Meet me at the club and then we’ll get a bit closer dancing to the beat and then try not to be slow bring me to the city where the normies are frozen bring me to the city and then right to the club”.
Giovanni Papalato
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