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La carne in tavola

La faraona nel coccio

di Scaglioni C.

 

I consigli, che negli anni ‘70 del secolo scorso venivano dati e si leggevano sulle pagine delle riviste di cucina specializzate ed in voga in quel momento, erano esattamente come oggi: tanti, forse troppi. Quasi tutti i giornali avevano al loro interno una rubrica seguita con attenzione ed interesse dalle padrone di casa, nella quale venivano elargiti suggerimenti sul bon ton e sul come muoversi per organizzare al meglio la propria vita in famiglia e tra i fornelli. Si insegnava come sistemare nel modo corretto la casa quando si ricevano ospiti e si spiegavano anche le tante utili cose da sapere per fare bella figura nelle varie circostanze della vita di società… Ma, e vale la pena di ricordarlo con il sorriso sulle labbra, proprio dalle pagine delle riviste più lette, ad un certo punto venne lanciato un categorico ed imperativo consiglio: “per essere una padrona di casa à la page ed attenta alle ultime novità del mercato, sarebbe stato bene dotare ed aggiungere alla propria attrezzatura in cucina un utilissimo tegame di coccio”. A dire la verità, sarebbe più giusto definire questo tegame una sorta di “piccolo forno in terracotta”, perché si sigillava ermeticamente grazie ad un coperchio con stampato in rilievo la forma di un gallinaceo. Secondo le raccomandazioni pubblicate, era assolutamente indispensabile usarlo quando si decideva di cucinare la faraona alla creta prima condita con i profumi classici dell’arrosto, poi avvolta nella stagnola ed adagiata nel tegame di coccio successivamente messo in forno. Trascorso il tempo previsto per la sua corretta cottura, la faraona si presentava morbidissima, perfetta da gustare ed anche simpatica da servire. In molte hanno seguito la moda del momento ed hanno comprato il coccio: lo confesso, anche io ho ceduto alla lusinga.

Apprezzata da Egiziani e Romani
La faraona è originaria dell’Africa, dove è diffusa allo stato selvatico, e pare sia stata resa domestica dagli antichi Greci e dai Romani che la introdussero per allevarla nei loro territori. Queste prime razze si estinsero all’inizio dell’era cristiana e solo successivamente tale volatile ricomparve in Europa intorno al secolo XV, quando navigatori portoghesi ne riportarono nuovi esemplari dal golfo della Guinea. La specie non si è adattata con la facilità dimostrata a suo tempo dal pollo domestico, ma alla fine del secolo scorso l’allevamento intensivo ha avuto un notevole sviluppo grazie all’utilizzo di mangimi specifici che hanno permesso di produrre faraone di circa un chilogrammo e mezzo anche in cento giorni, per cui è possibile trovarle in commercio con estrema facilità.
Non avendo di solito noi consumatori la possibilità di vederli vivi ed essendo abituati come è logico ad acquistare il pollame senza la tipica e caratteristica copertura del loro piumaggio, non ne afferriamo a pieno la bellezza. La faraona è forse, tra gli avicoli, uno dei più belli, con le piume di un colore nero brillante molto particolare e con delle sfumature sul grigio ardesia scuro; tonalità difficili da essere imitate, perché solo la natura è capace di creare tale bellezza. Le sue piume poi sono uniformemente punteggiate da piccoli pois bianchi che rendono il suo aspetto quasi regale.
È curioso rilevare che, per sua natura, questa specie è monogama e tale caratteristica ha creato non pochi ostacoli nell’allevamento. Ostacoli poi superati quando le femmine sono state allevate in batteria e si è fatto successivamente ricorso alla fecondazione artificiale. Le razze maggiormente allevate sono la Lilla o Grigia e la Camosciata. Quella che vive all’aperto, rispetto a quella allevata con metodi intensivi, ha una carne più scura, con una piacevole vena di selvatico nel sapore che ricorda il fagiano. Nella classificazione in base al colore della carne la faraona si colloca a metà strada tra il tacchino e il fagiano. La carne del petto è chiara, mentre cosce e sovracosce hanno carni piuttosto scure.

Cotta a puntino
La faraona si può cucinare in vari modi, secondo ricette adatte anche al tacchino giovane, al pollo, al fagiano. Negli anni ‘70, come già ricordato, era molto in voga preparare la faraona alla creta. Questo metodo di cottura ha origini antiche ed è attribuito comunemente ai Longobardi, che avevano l’abitudine di mettere in forno, oppure tra un mucchio di pietre roventi, un uccello, un fagiano, una faraona o altro volatile ricoperto dall’argilla morbida con tutte le sue penne. Passato il tempo in cui si valutava che la creta fosse cotta al punto giusto (meglio dire “dura a puntino”), la si spaccava e l’uccello al suo interno si presentava perfettamente pulito, pronto per essere mangiato in quanto le penne rimanevano imprigionate nella stessa creta che si solidificava al contatto del calore.
Questo metodo elementare ma ingegnoso, ancora in uso nell’Africa orientale dove la faraona si trova facilmente allo stato selvatico, rende la carne più saporita e migliore al palato, dato che la cottura avviene utilizzando i grassi e i succhi contenuti al suo interno.
Per far arrivare in tavola un piatto di faraona perfetto, di ricette ne sono state provate e studiate tante, ma c’è un particolare importante che va tenuto sempre presente come regola ferrea: per rendere le sue carni più morbide e ottenere i migliori risultati, è consigliabile avvolgerla, intera o a pezzi, con delle fette di pancetta.
A me piace molto cucinare la faraona e vorrei consigliare due ricette che utilizzo spesso perché molto comode, soprattutto se si hanno ospiti.
La prima è la faraona alla crema con il riso alla parmigiana. Si tratta di un primo ed un secondo che si presentano molto bene in tavola. In un piatto da portata, possibilmente di grandi dimensioni, si dispone il riso ad anello e al centro si mette la faraona a pezzetti con il suo buon sughetto. È una preparazione facile da realizzare, elegante da vedere, buona e di successo.
La seconda ricetta è una profumata faraona al cartoccio che richiede un minimo di tempo per prepararla, aromatizzarla e assemblarla, ma poi ha il pregio che si cuoce in forno senza ulteriori attenzioni. Si porta in tavola nello stesso contenitore di cottura e forse, in questo specifico caso, per chi lo conserva ancora, vale la pena di andare a ripescare il famoso “coccio”, un tempo tanto reclamizzato.


Clara Scaglioni




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