Ad oltre trent’anni di distanza dall’attivazione delle prime procedure del RASFF (sistema di allarme rapido per gli alimenti e i mangimi), permangono in sede applicativa alcune criticità che sono motivo di discussione tra organi di controllo e OSA. Si tratta di una contrapposizione che, evidentemente, dovrebbe trovare ragionevole composizione nell’esame delle diverse posizioni delle parti e nell’avvertita esigenza di migliorare il sistema. Nell’applicazione pratica di tali procedure si è avuto modo di osservare, in diverse occasioni, che l’organo di controllo esercita, di fatto, poteri e prerogative che sfuggono alla verifica degli altri attori coinvolti nella procedura. Non sono infrequenti le divergenze tra l’organo di controllo che ha adottato la procedura di allerta e l’OSA circa la corretta valutazione del rischio, l’opportunità di procedere al ritiro o al richiamo del prodotto, l’informativa e comunicazione tra le parti interessate, ecc… Si tratta di temi che rappresentano, a parere di chi scrive, i “nervi scoperti” di un sistema sul quale è necessario soffermare l’attenzione al fine di migliorare le regole che lo disciplinano.
Breve inquadramento storico e giuridico
Nel 1978, a seguito del ritrovamento a Maastricht (nei Paesi Bassi) e in Germania Ovest di mercurio in arance provenienti da Israele, le autorità di controllo alimentare degli Stati Membri dell’UE stipularono un accordo per “istituire un sistema informazione reciproca per i casi di rischio sanitario correlati a problemi alimentari” 1.
Successivamente, venne pubblicata sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità europee la proposta di Decisione del Consiglio COM/79/725 DEF, che all’art. 1 disponeva: “Ogni Stato Membro che constati sul proprio territorio che un prodotto di consumo, o un lotto di questo, commercializzato in uno o diversi altri Stati Membri della Comunità e utilizzato in condizioni normali presenta un pericolo grave e immediato per la salute e per la sicurezza delle persone, ne informa urgentemente gli altri Stati che potrebbero essere minacciati da un tale pericolo e la Commissione, senza pregiudizio delle disposizioni della Comunità relative a determinati prodotti…(…)”.
La definizione di prodotto di consumo era fornita all’art. 2. Essa comprendeva gli alimenti destinati al consumo umano, le attrezzature domestiche (comprese quelle di bricolage), le automobili, le biciclette, le motociclette e gli altri mezzi di trasporto. Erano esclusi tutti i prodotti destinati ad uso professionale.
La proposta predetta fu modificata nel 1982. Successivamente, nel 1984, fu adottata la Decisione del Consiglio 84/133/CEE, confermata in seguito dalla Decisione 89/45/CEE. Il sistema comunitario di scambio rapido di informazioni sui pericoli connessi con l’uso di prodotti di consumo era previsto in caso di prodotti che rappresentavano un pericolo grave e immediato per la salute e la sicurezza dei consumatori con espressa esclusione dei prodotti destinati ad uso professionale. La procedura contemplava che, qualora fosse stato possibile, si sarebbe dovuto preventivamente consultare “il produttore, distributore o importatore del prodotto o lotto di un prodotto” 2.
La normativa dell’epoca non prevedeva la definizione della locuzione “pericolo grave e immediato”, che quindi poteva essere oggetto di diversa interpretazione da parte delle autorità dei singoli Paesi Membri.
Successivamente, fu emanata la Direttiva 92/59/CEE del Consiglio, relativa alla sicurezza generale dei prodotti (sistema RAPEX), che ricomprendeva anche il sistema di allarme previsto per gli alimenti. Essa si prefiggeva, tra gli altri, l’obiettivo di uniformare, a livello comunitario, la legislazione esistente in materia di sicurezza dei prodotti alimentari nei diversi Paesi Membri. Vi era, peraltro, anche l’esigenza di adottare misure che fossero in sintonia con la creazione del mercato europeo interno, nel quale sarebbe stata assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Va osservato che, neppure nella direttiva in parola, si forniva la definizione di “rischio grave e immediato”; infatti, all’allegato 1, par. 2, si precisava: “Il sistema è inteso essenzialmente a permettere un rapido scambio di informazioni in presenza di un rischio grave e immediato per la salute e la sicurezza dei consumatori. Non è possibile fissare criteri specifici per stabilire che cosa costituisca di preciso un rischio grave e immediato. Questi elementi verranno dunque valutati caso per caso dalle autorità nazionali… (…)”.
La successiva Direttiva (CE) n. 2001/95 confermava il sistema RAPEX food e non food, che tuttavia presentava diversi limiti. In particolare, le crisi alimentari di quegli anni avevano dimostrato la necessità di istituire una procedura di allarme rapido dedicata specificatamente agli alimenti e ai mangimi, migliore e più ampia3.
La Comunità europea, dopo aver fatto tesoro dell’esperienza maturata con le diverse emergenze occorse (l’encefalite spongiforme bovina nel 1995, le aflatossine nei pistacchi provenienti dall’Iran nel 1998, i mangimi per i polli contaminati da diossina in Belgio nel 1999, i mangimi dei suini contaminati da un residuo delle pillole contraccettive femminili in Olanda nel 2002, ecc…), introduceva con il Reg. (CE) 178/2002 un nuovo sistema di allerta, riservato ad alimenti e mangimi, più ampio e completo del precedente. Il Reg. (CE) 178/2002, all’art. 50, par. 1, prevede l’adozione del sistema di allarme in caso di “grave rischio diretto o indiretto” per la salute umana dovuto ad alimenti o mangimi. Si tratta di una categoria che appare più ampia del “grave rischio immediato”, precedentemente considerata. Dalla lettura dell’art. 50 del Reg. (CE) 178/2002 emerge che presupposto per l’adozione dell’allerta sia “l’informazione” relativa all’esistenza di un grave rischio. Tale presupposto, indubbiamente, si collega alle definizioni di “pericolo”, di “rischio” e di “valutazione del rischio”, fornite, peraltro, nel medesimo Regolamento (CE) 178/20024.
Non è, tuttavia, rinvenibile la definizione di “grave rischio”, la cui valutazione è rimessa di volta in volta all’autorità competente, evidentemente anche sulla base delle classificazioni adottate dalla dottrina igienistica.
Norma fondamentale per l’individuazione del “rischio” appare l’art. 14, che indica quando gli alimenti sono considerati a rischio: “a) se sono dannosi per la salute; b) se sono inadatti al consumo umano… (…)”. Si tratta di una norma dai contenuti squisitamente tecnici, di non facile lettura, che lascia spazio a differenti interpretazioni.
A seguito delle difficoltà emerse in sede di applicazione del sistema previsto con il Regolamento (CE) 178/2002 e al fine di stabilire delle procedure rapide, efficaci e uniformi, il 15 dicembre 2005 sono state emanate le Linee Guida per la sua gestione operativa (Intesa Stato-Regioni n. 2395).
È interessante notare come, ai fini operativi, al paragrafo 4 di tali Linee Guida si proponga la seguente classificazione: “a) alimenti che rappresentano un grave rischio per la salute del consumatore e per i quali è richiesto un intervento immediato. Per tale tipologia è prevista l’attivazione del Sistema di allerta; b) alimenti che pur presentando non conformità alle norme vigenti, non rappresentano un grave rischio per il consumatore, e/o non richiedono un intervento immediato”.
Del pari, è importante quanto si afferma al paragrafo n. 6 (Attivazione del sistema di allerta): “È impossibile stabilire criteri specifici per definire a priori, con precisione, che cosa costituisca un grave rischio per la salute pubblica. Ogni caso dovrà pertanto essere analizzato con scienza e coscienza, avvalendosi eventualmente del supporto tecnico-specialistico ritenuto più opportuno, tenendo conto di numerosi elementi quali ad esempio: tipo e quantità di microrganismi, distribuzione dell’alimento, destinazione d’uso, trattamenti ai quali verrà sottoposto, ecc…”.
Le Linee Guida del 2005 hanno evidenziato importanti criticità, è dunque emersa la necessità di modificarle. In particolare, sono stati riscontrati:
dei ritardi nell’identificazione dei rischi, ad es. nell’emissione di referti;
la mancanza di criteri di riferimento per la valutazione del rischio;
la mancanza di supporto per la valutazione rapida dei rischi emergenti;
la mancanza di sistemi informatizzati a livello regionale per la trasmissione in tempo reale delle informazioni, ecc…
Tali criticità hanno condotto all’emanazione della nuova Intesa Stato-Regioni n. 204/ CSR del 13 novembre 2008), che tuttavia non appare risolutiva delle problematiche emerse.
Con le Linee Guida del 2008 sono state introdotte diverse specificazioni e novità. Il nuovo paragrafo n. 3, recante il “Campo di applicazione”, è stato riformulato. Le nuove Linee Guida si applicano ogni qualvolta esista un grave rischio diretto o indiretto per la salute umana, animale e la salubrità dell’ambiente, nei casi di: “1. superamento nell’alimento o nei mangimi dei limiti fissati dalle normative vigenti in materia di sicurezza alimentare; 2. alimenti dannosi per la salute o inadatti al consumo umano qualora rappresentino un grave rischio per la salute del consumatore. A tal fine si considera quanto previsto dall’art. 14 del Reg. 178/2002; 3. mangimi che hanno un effetto nocivo per la salute umana. A tal fine bisogna considerare quanto previsto dall’art. 15 del Reg. 178/2002”.
Sono oggetto della procedura di allerta anche i prodotti intermedi di alimenti e mangimi, qualora rappresentino un grave rischio, diretto o indiretto, per la salute umana. Si tratta dei prodotti destinati all’industria, agli utilizzatori commerciali intermedi, agli artigiani, per i loro usi professionali, ovvero per essere sottoposti ad ulteriori lavorazioni, nonché i semilavorati non destinati al consumatore.
Sono esclusi dal campo di applicazione delle Linee Guida i criteri microbiologici di processo, le frodi commerciali che non rappresentino un rischio attuale o potenziale per il consumatore, i mangimi nei quali l’agente biologico potenzialmente pericoloso risulta non vitale e gli alimenti che per loro natura sono destinati a subire un trattamento prima del consumo, tali da renderli innocui alla salute umana o animale.
Un’altra novità è rappresentata dall’espresso richiamo al principio di precauzione: “Nel caso in cui si sospetti la presenza di un rischio grave, ma non siano disponibili sufficienti informazioni o dati scientifici al riguardo, sulla base del principio di precauzione, di cui all’art. 7 del Regolamento (CE) 178/2002, si procede all’immediata attivazione del sistema di allerta”.
È utile ricordare che la definizione del principio di precauzione è fornita dall’art. 7 del Regolamento (CE) 178/20045. Esso si applica nei casi in cui a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute, ma permanga una situazione di incertezza sul piano scientifico. Ragionevolmente si può affermare che ad esso è possibile fare ricorso solo se, dopo aver effettuato un’adeguata valutazione scientifica attraverso gli accertamenti e gli approfondimenti possibili, permanga una situazione di incertezza. Non sembra, dunque, possibile invocare il principio di precauzione per sopperire a difficoltà contingenti dovute a ritardi nelle analisi, oppure quando la situazione di incertezza derivi da carenze organizzative nella procedura di allerta (mancanza di adeguato supporto scientifico).
Il principio di precauzione dovrebbe essere considerato, pertanto, come istituto residuale a cui si dovrebbe fare ricorso solo a seguito di un’attenta valutazione scientifica che faccia permanere una situazione di incertezza.
Un altro concetto apprezzabile, espresso nelle predette Linee Guida, è che la valutazione scientifica “dovrà essere impostata su un approccio di tipo scientifico che tenga conto, a seconda delle diverse situazioni che si possono prospettare, di ogni altro eventuale aspetto connesso con la sicurezza igienico sanitaria dei prodotti, come ad esempio le normali condizioni di utilizzo da parte del consumatore, le informazioni fornite dall’operatore del settore con l’etichettatura e la presentazione ecc. Sulla base di tale presupposto l’accettabilità sotto il profilo igienico sanitario di un determinato alimento o materiale a contatto con alimenti, dipenderà da una combinazione di fattori che dovranno, conformemente a quanto prevede l’art. 14 del Regolamento (CE) 178/2002, essere presi in esame di volta in volta e saranno determinati nella scelta della decisione finale da adottare”.
Tale affermazione richiama la definizione di valutazione del rischio, che è offerta dall’art. 3 del Reg. (CE) 178/2002 quale processo su base scientifica costituto dall’individuazione del pericolo, dalla caratterizzazione del pericolo, dalla valutazione dell’esposizione al pericolo e dalla caratterizzazione del rischio. Va da sé che sarà da considerarsi carente una valutazione del rischio mancante dell’esame di uno dei suoi elementi costitutivi.
Come si può comprendere, la valutazione del rischio è la premessa su cui deve fondarsi l’allerta ed essa va ad assumere un’importanza fondamentale per tutti i soggetti che intervengono o sono coinvolti nella procedura. A parere dei commentatori, ragionevolmente, tale valutazione dovrebbe essere esplicitata in un documento scritto sufficientemente dettagliato al fine di fornire la possibilità di effettuare un controllo tempestivo sulla correttezza delle valutazioni espresse. In effetti, essa è l’affermazione da parte dell’autorità sanitaria di una non conformità dalla quale possono derivare anche importanti responsabilità per gli OSA (civili, penali, amministrative). Vista l’importanza di tale affermazione, la valutazione del rischio dovrebbe rivestire la forma e la sostanza dell’atto pubblico. Essa, ad esempio, dovrebbe essere notificata agli operatori interessati e dovrebbe contenere in maniera dettagliata la descrizione delle basi giuridiche e scientifiche su cui poggia. Le obiettive difficoltà interpretative che il tema della valutazione del rischio introduce hanno spinto la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome a introdurre nelle Linee Guida l’allegato D: “Criteri per la notifica del rischio”. Il documento in parola individua i casi in cui si identifica un rischio grave e quelli in cui si rende necessaria una valutazione scientifica per accertare la presenza di un rischio grave sanitario.
Nelle Linee Guida sono di sicuro interesse anche i paragrafi n. 7 e 8 nei quali si dispone che il nodo regionale verifichi la conformità della documentazione ricevuta a quanto previsto dall’intesa e che il punto di contatto nazionale provveda alla valutazione delle informazioni ricevute dai componenti della rete (nodi regionali), effettuando tra i vari controlli quello dell’adeguatezza “dei criteri adottati per la caratterizzazione del pericolo e la valutazione del rischio”. Inoltre, si prevede che il punto di contatto nazionale possa richiedere il supporto tecnico-scientifico degli uffici competenti del Ministero, dell’Istituto Superiore di Sanità dell’Autorità Europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ed eventualmente di altri enti per la corretta valutazione delle informazioni ricevute, l’esistenza di controversie o dubbi sulla corretta interpretazione o applicazione della normativa vigente, in caso di assenza di limiti comunitari armonizzati per particolari tipologie di contaminanti e/o prodotti.
Trattandosi di attività di controllo di particolare rilevanza, che peraltro dovrebbero essere svolte nel rispetto di una tempistica consona alle dinamiche produttive e commerciali del settore cui interessano, sarebbe opportuno che anche tali atti fossero consacrati in documenti facilmente accessibili agli operatori interessati ed eventualmente notificati agli stessi. Infine, va segnalato il Regolamento (UE) n. 16/2011 che “codifica in modo organico e sistematico, sotto il profilo procedurale, le regole contenute nell’art. 50 del Regolamento (CE) n. 178/200”6. Esso introduce diverse innovazioni nella disciplina dell’allerta sia di carattere sostanziale che procedurale. Tra queste, vanno menzionate le verifiche di tipo formale previste dall’art. 8 a carico della Commissione prima di effettuare la notifica di allarme a tutti i punti di contatto della rete entro 24 ore dal ricevimento: “Prima di trasmettere una notifica a tutti i membri della rete, il punto di contatto della Commissione di cui all’art. 7, paragrafo 2; a) controlla la completezza e la leggibilità e verifica se sono stati scelti i dati appropriati dai dizionari di cui all’art. 7, paragrafo 2; b) controlla la correttezza della base giuridica citata per i casi di non conformità riscontrati; in ogni caso, se è stato identificato un rischio, la notifica è trasmessa anche in caso di base giuridica non corretta …(…)”.
Va anche ricordato l’art. 9 (“Ritiro e modifica di una notifica”) in base al quale qualsiasi membro della rete, previo consenso del membro notificante, può chiedere al punto di contatto della Commissione di ritirare una notifica trasmessa attraverso la rete, se le informazioni su cui si basa l’intervento da eseguire si rilevano infondate o se la notifica è stata trasmessa erroneamente. Così come può chiedere che una notifica sia modificata, previo consenso del membro notificante.
Le criticità emerse nella casistica
Passiamo ora ad esaminare alcune criticità emerse nell’applicazione pratica del sistema di allerta, che possono essere utili a valutare se e come la procedura in esame possa essere migliorata, considerando che gli operatori del settore alimentare sono di fatto il soggetto debole nel rapporto tra controllore e controllato. Il primo caso che sottoponiamo alla vostra attenzione riguarda la segnalazione di una presunta tossinfezione alimentare che avrebbe colpito 5 persone, presumibilmente appartenenti allo stesso nucleo familiare, con sintomi di diarrea acquosa e crampi addominali. L’ASL di competenza, a seguito della segnalazione, ha effettuato presso un supermercato il campionamento di alcuni prodotti surgelati, al fine di eseguire le seguenti analisi microbiologiche: Escherichia coli, conteggio delle colonie aerobiche, enterobatteriacee e Bacillus cereus.
Le prove eseguite dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale hanno evidenziato la presenza di Bacillus cereus (con tipizzazione dei ceppi in corso) nella quantità massima di 40 ufc/g. A seguito di tali risultati analitici, l’ASL ha disposto il vincolo sanitario del prodotto rinvenuto presso il punto vendita ove lo stesso era stato campionato e ha attivato il sistema di allerta rapido per alimenti e mangimi. In via cautelativa e al fine di fornire la collaborazione necessaria per la gestione dell’emergenza, l’impresa produttrice ha disposto il ritiro dal mercato del lotto del prodotto interessato dandone comunicazione all’autorità sanitaria competente. Successivamente, e dopo aver approfondito la questione, ha presentato istanza di revoca dell’allerta.
Secondo l’OSA, gli alimenti surgelati immessi sul mercato, oggetto della procedura di allerta non superavano i limiti fissati dalle normative vigenti in materia di sicurezza alimentare, né tanto meno potevano essere considerati dannosi per la salute del consumatore. In particolare, era evidenziata l’assenza di qualsiasi pericolo e dunque l’inidoneità dell’alimento a provocare effetti nocivi. A parere dell’OSA, nei prodotti surgelati era stata riscontrata una modesta e insignificante presenza di Bacillus cereus che, sulla base dell’unanime letteratura scientifica, non poteva essere letta come rappresentativa di una situazione di pericolo prima ancora che di grave rischio. Si osservava che il legislatore non collega il pericolo alla semplice presenza di un agente biologico, ma richiede che esso possa provocare un effetto nocivo per la salute. Secondo la ditta produttrice, l’allerta sanitaria era stata attivata in assenza dei presupposti fondamentali, e cioè non solo in assenza di un “grave rischio” ma dello stesso “pericolo” dell’alimento, visto che sul campione prelevato dall’autorità di controllo era risultato che il Bacillus cereus era presente nella quantità massima di 40 ufg/g. L’allerta era stata resa operante senza neppure aver avuto riscontro della tipizzazione del germe del Bacillus cereus e senza avere riscontrato la presenza della tossina che avrebbe dovuto causare la tossinfezione che aveva interessato i consumatori. Peraltro, non era neppure stata eseguita una coprocoltura a conferma della tesi da cui era scaturita l’allerta.
Il Bacillus cereus è un germe ubiquitario in grado di contaminare tutti i tipi di alimento ed è un agente di tossinfezione alimentare che si manifesta in forme diarroiche o forme emetiche. Secondo la letteratura scientifica “la dose minima necessaria a scatenare la malattia deve essere almeno di 105 UFC/g e la capacità di produrre tossina è estremamente variabile da ceppo a ceppo; la presenza di elevate quantità di B. cereus in alimenti ritenuti responsabili di focolai di tossinfezione non deve indurre a ritenere con assoluta certezza che il germe sia l’agente della malattia”"†7.
Dal rapporto di prova eseguito non sarebbero, dunque, emersi elementi né tanto meno indizi per collegare l’episodio di tossinfezione denunciato alla modesta presenza di Bacillus cereus riscontrata nel prodotto. Tale connessione risultava pertanto arbitraria e non supportata da nessun dato. Si faceva notare che lo stesso orientamento era espresso anche dall’EFSA: “Nella maggior parte dei casi le malattie di origine alimentare causate dal B. cereus sono state associate alla presenza di 5-8 log cellule spore per grammo di veicolo alimentare. In alcune intossicazioni, tuttavia, sono stati osservati nei cibi quantitativi inferiori (3-4 log/g). Le intossicazioni riconducibili ad altri Bacillus spp. sono sempre state legate alla presenza di un numero elevato di cellule/spore nel veicolo alimentare (pari o superiore a 6 log/g). Il Bacillus cereus è un microrganismo ubiquitario le cui spore si trovano in quantità ridotte, tali da non provocare intossicazioni alimentari, in un’ampia gamma di prodotti alimentari”"†8.
Nel caso degli alimenti surgelati, i livelli di contaminazione del Bacillus cereus apparivano insufficienti a produrre una tossinfezione alimentare, essendo unanimemente condiviso che questi microrganismi possono agire solo quando la loro concentrazione supera almeno le 100.000 ufc/g di alimento. Tali evidenze scientifiche escludevano, dunque, che il prodotto potesse essere considerato pericoloso e dunque costituire un grave rischio per il consumatore.
La tesi dell’OSA era confortata anche dall’opinione dell’ASL dell’Emilia-Romagna: “La diagnosi di tossinfezione da Bacillus cereus può presentare alcune difficoltà poiché la sintomatologia è talvolta simile a quella delle tossinfezioni sostenute da Clostridium perfringens (sindrome diarroica); la diagnosi è confermata solamente dal rinvenimento nel cibo di 105 o più microrganismi per grammo di cibo sospetto”9. Paradossalmente, se il prodotto fosse stato valutato da una diversa ASL, sarebbe stato probabilmente considerato regolare. Verosimilmente gli esiti analitici, che avevano portato all’attivazione dell’allerta in un determinato territorio, sarebbero stati ritenuti non rappresentativi in una diversa regione.
Come ulteriore argomento, si menzionava il Regolamento (CE) 1441/07 che modifica il Regolamento (CE) 2073/05 e che dispone, per gli alimenti in polvere per lattanti e gli alimenti dietetici in polvere, ai fini medici speciali, destinati ai bambini di età inferiore a sei mesi, un limite di accettabilità del prodotto contenente Bacillus cereus di M 500 ufc/g e M 50 ufc/g. In effetti, se i valori sopra citati, superiori a quelli riscontrati nel prodotto surgelato, erano ammessi in prodotti non destinati a cottura, diretti a lattanti e bambini di età inferiore a sei mesi, non appariva corretto ritenere che la presenza di quantità inferiori di Bacillus cereus in prodotti destinati alla cottura, come quelli attenzionati, potessero essere fonte di pericolo. L’allerta, pertanto, non risultava giustificata neppure facendo ricorso all’applicazione del principio di precauzione disciplinato dall’art. 7 del Regolamento (CE) 178/2002. Difatti, l’accertata presenza di Bacillus cereus in quantità modeste, sulla quale si era espressa autorevole letteratura, non costituiva situazione rispetto alla quale vi fosse incertezza sul piano scientifico. I dati a disposizione dell’autorità di controllo erano senz’altro sufficienti per valutare l’insussistenza di rischi o pericoli. Peraltro, per una corretta valutazione del rischio si sarebbero dovuti considerare anche altri fattori, come ad esempio le normali condizioni di utilizzo dell’alimento in ciascuna fase della produzione, della trasformazione e della distribuzione, nonché le informazioni messe a disposizione del consumatore nell’etichettatura.
Nel caso esaminato, si trattava di un prodotto surgelato, destinato ad essere introdotto tal quale nell’apparato di cottura, da consumare solo dopo il trattamento termico praticato secondo le istruzioni previste sull’etichetta. Ragionevolmente, l’elevata temperatura a cui sarebbe stato sottoposto l’alimento (180°C per 5 minuti) avrebbe dovuto determinare la scomparsa del numero di ufc/g accertato.
Su tale punto si precisava che l’etichettatura del prodotto recava tutte le diciture obbligatorie previste per gli alimenti surgelati e in particolare le istruzioni relative alla sua conservazione domestica. Erano altresì riportate le istruzioni per l’uso e le modalità di utilizzazione, in considerazione del fatto che il prodotto doveva essere cotto. Vi era, altresì, da considerare che il prodotto, una volta fuoriuscito dalla disponibilità del produttore, avrebbe dovuto essere conservato e consumato secondo le modalità e le istruzioni fornite da quest’ultimo.
Un’eventuale conservazione difettosa o un’inadeguata preparazione e utilizzazione del prodotto da parte del consumatore non avrebbero potuto giustificare l’attivazione di un’allerta. Ulteriore elemento da valutare era la sintomatologia descritta dai consumatori, che poteva essere riferita a svariate cause, fra le quali anche quella dell’ipotetica presenza di una tossina derivante dal Bacillus cereus termolabile. Tuttavia, nello specifico prodotto tale presenza era improbabile a causa dell’azione del calore a seguito della cottura del prodotto. In effetti, gli argomenti sopra menzionati avrebbero dovuto far desumere che non era affatto pacifica la sussistenza di “grave rischio”. Senza entrare nel merito della vicenda (sussistenza o insussistenza di rischio grave diretto o indiretto per la modesta presenza di Bacillus cereus), è legittimo chiedersi come sia stata effettuata la valutazione del rischio da parte dell’autorità competente, in particolare quali elementi siano stati posti alla base dell’individuazione del pericolo, della sua caratterizzazione, della valutazione dell’esposizione al pericolo e della caratterizzazione del rischio. La conoscenza di tali elementi, probabilmente, avrebbe consentito all’operatore di esercitare in maniera più piena il suo diritto di difesa e dunque di rilevare, con maggiore compiutezza, l’infondatezza della procedura.
Sarebbe stato senz’altro utile per l’OSA:
conoscere se e quale ufficio avrebbe successivamente controllato tale valutazione, anche con riferimento alle problematiche di ritiro e/o richiamo del prodotto;
partecipare a tale controllo avendo un ruolo attivo attraverso la presentazione di memorie e documenti, al fine di consentirgli di enunciare, in maniera compiuta, le sue riserve circa la procedura adottata.
In un diverso caso, presso un centro di distribuzione all’ingrosso, l’ASL effettuava un campionamento di “peperoncino macinato” confezionato da un’azienda che, per comodità, chiameremo Beta con lotto y. Il prodotto campionato risultava positivo alle analisi per la presenza di Bacillus cereus (1,2X10 E+3 – u.f.c./g) con capacità enterotossinogena. L’autorità sanitaria procedeva all’adozione dell’allerta sul lotto y confezionato da Beta in pacchetti da 1 kg e inoltrava denuncia alla Procura della Repubblica competente per supposta violazione dell’art. 5, lett. d) della Legge 283/1962.
La materia prima utilizzata per il confezionamento del prodotto da parte di Beta era stata fornita dalla società Alfa, che a sua volta l’aveva importata dall’Oriente. La merce, proveniente dal Paese extra-UE, in origine era confezionata in sacchi da 20 kg ed era contrassegnata dal lotto x. All’arrivo in Italia era accompagnata da regolare documentazione per l’importazione e prima di essere commercializzata era stata sottoposta a esami analitici nel rispetto del piano di autocontrollo dell’importatrice Alfa.
Successivamente all’adozione dell’allerta, l’ASL competente per territorio richiedeva ad Alfa la trasmissione dei documenti di importazione del peperoncino fornito alla ditta confezionatrice Beta, i certificati di analisi e i documenti di vendita. L’autorità sanitaria richiedeva, inoltre, ad Alfa anche il ritiro, presso i clienti, del prodotto “peperoncino in polvere” confezionato all’origine in sacchi di 20 kg, con lotto x. Alfa si opponeva a tale richiesta, ritenendo illegittima l’estensione dell’allerta anche alla merce proveniente dall’Oriente contrassegnata da un lotto e una confezione diversa rispetto al prodotto risultato positivo alle analisi.
In primo luogo, l’operatore evidenziava l’assenza della pericolosità della merce proveniente dall’Oriente confezionata in sacchi da 20 kg e con lotto x. Difatti, nessun accertamento era stato effettuato sulla stessa. Il prodotto oggetto dell’allerta era solo quello confezionato da Beta in confezioni da 1 kg e con il diverso lotto y. La circostanza che la merce importata da Alfa fosse stata successivamente fornita a Beta non costituiva prova che essa non fosse conforme. Peraltro tale merce era risultata regolare e non poteva essere equiparata al prodotto stoccato, manipolato e confezionato dal diverso operatore Beta che lo aveva acquistato.
Era assai verosimile che una conservazione o uno stoccaggio difettosi, un’inadeguata manipolazione, preparazione e confezionamento del prodotto da parte di Beta avrebbero potuto causare la positività riscontrata. Pertanto, non poteva oggettivamente giustificarsi il ritiro di un prodotto diverso da quello allertato con lotto e confezione differenti.
La circostanza che la merce proveniente dall’Oriente fosse stata commercializzata senza ricevere segnalazioni di non conformità o di danno da parte di altri operatori acquirenti costituiva, peraltro, un elemento significativo che rendeva difficile accreditare la presunzione che sin dall’origine il peperoncino fosse irregolare. Alfa si lamentava, dunque, dell’illegittimità della richiesta di ritiro della merce effettuata dall’autorità sanitaria, richiamando l’attenzione sul tenore dell’art. 14 del Reg. (CE) 178/2002, che presume la sussistenza del rischio per gli alimenti appartenenti alla stessa partita, lotto o consegna di alimenti della stessa classe o descrizione. Presunzione che, tuttavia, non era applicabile al caso di specie in quanto la materia prima proveniente dall’Oriente aveva un numero di lotto diverso rispetto al prodotto attenzionato, che era stato lavorato e confezionato in circostanze differenti.
In effetti, la richiesta dell’autorità sanitaria di estendere il ritiro del prodotto anche ad altri lotti avrebbe dovuto essere confortata da preliminari indagini sulla supposta pericolosità dell’alimento, anche a fronte di un’affermazione di regolarità del lotto x, ancorata a rilievi analitici se pure di parte. Peraltro, la stessa autorità sanitaria non si era mai espressa sulla non conformità del lotto x.
La richiesta di ritiro non appariva neppure giustificata con riferimento al dettato dell’art. 19, paragrafo 1 del Regolamento (CE) 178/2002, non essendoci motivo di ritenere che il prodotto non fosse conforme ai requisiti di sicurezza degli alimenti. Essa appariva in contrasto anche con il dettato delle Linee Guida del 2008 ove al paragrafo 6, intitolato “Competenze ASL”, si afferma che “verrà valutata caso per caso, in funzione della valutazione del rischio, l’opportunità di effettuare campioni ufficiali in lotti diversi dello stesso prodotto. Si dovrà invece procedere a prelievo ufficiale nel caso in cui l’irregolarità sia riscontrata in un prodotto presentato in confezione non più integra a seguito di reclamo”.
Dalle predette Linee Guida si evince che, se si vuole estendere l’allerta a lotti diversi da quello interessato, occorre procedere con le analisi, e cioè effettuare una valutazione del rischio. In effetti, anche per questo caso nascono delle perplessità circa la valutazione del rischio effettuata dall’autorità sanitaria e circa l’opportunità di procedere al ritiro di merce mai dichiarata non conforme. È indubbio che sarebbe stato utile per l’OSA conoscere con precisione i motivi della richiesta di ritiro e i presupposti sui quali essa si basava, semmai per poter sottoporre le proprie rimostranze a un organismo tecnico terzo che, in piena autonomia, valutasse la questione.
In un diverso caso, l’allerta aveva interessato un prodotto proveniente da agricoltura biologica. L’allerta era adottata in quanto, ad una prima analisi, era stata riscontrata la presenza di residui di sostanze fitosanitarie non consentite in alimenti biologici. Il prodotto, tuttavia, era conforme come alimento convenzionale. L’operatore interessato presentava tempestivamente richiesta di revisione di analisi, ritenendo che il campione oggetto di accertamento fosse perfettamente regolare, e cioè potesse vantare il marchio di qualità. A seguito della presunta non conformità, relativa alla dicitura “da agricoltura biologica”, l’ASL competente chiedeva all’OSA la lista clienti finalizzata al ritiro del prodotto. L’impresa produttrice dell’alimento si opponeva all’allerta e al ritiro del prodotto, affermando che esso non era pericoloso, né tanto meno si profilavano rischi per la sua commercializzazione. Peraltro, la sua presunta irregolarità non aveva valenza igienico-sanitaria, essendo attinente ad una problematica di tipo commerciale. Evidenziava, inoltre, che le stesse Linee Guida del 2008 prevedevano l’esclusione dal loro campo di applicazione delle frodi commerciali che non rappresentavano un rischio attuale o potenziale per il consumatore.
Anche nel caso di specie non ci si può esimere dall’osservare che sarebbe stato opportuno per l’operatore conoscere su quali basi scientifiche era stata effettuata la valutazione del rischio, e dunque conoscere i motivi che avevano determinato l’ASL all’adozione della procedura. In particolare, quali ragioni giustificavano il ritiro del prodotto.
Conclusioni
Dalla breve ricognizione delle norme di riferimento emerge che la questione della valutazione del rischio è risalente. Sin dagli inizi dell’applicazione delle prime procedure di allarme rapido era emerso che la mancanza di definizioni condivise tra i Paesi Membri determinava l’adozione di diversi pesi e misure nella valutazione del rischio. Molti passi in avanti da allora sono stati fatti. Tuttavia c’è ancora molto da fare, soprattutto sul versante del bilanciamento tra le prerogative dell’ASL e il diritto di difesa degli OSA, che appaiono i soggetti più deboli nel rapporto tra controllore e controllato. La valutazione del rischio rappresenta ancora oggi uno degli argomenti centrali nella dialettica tra parti interessate, un tema che richiede costanti aggiornamenti, vista la rapida evoluzione della tecnologia di settore. La casistica conferma che l’organo di controllo esercita, di fatto, poteri e prerogative che sfuggono alla verifica degli altri attori coinvolti nella procedura.
Il sistema di allerta dovrebbe, pertanto, prevedere effettivi strumenti di tutela per gli OSA, tenendo anche presente i considerevoli danni economici e di immagine che possono derivare dall’adozione di procedure infondate. La previsione di tali strumenti gioverebbe a tutti gli attori della procedura, che sarebbero sollecitati a migliori approfondimenti e a creare al loro interno sistemi di verifica più rispondenti alle nuove esigenze che lo stesso mercato impone. Infatti, occorre considerare che l’errata valutazione del rischio può avere effetti negativi non solo sugli operatori interessati, ma anche, più in generale, sul mercato, che già da troppo tempo è messo a dura prova per altre difficoltà che lo attraversano.
È utile ricordare che, nel settore degli alimenti, anche i ritardi nella valutazione del rischio possono produrre agli OSA danni di un certo rilievo. Si pensi, ad esempio, all’accertamento dell’esistenza di grave rischio da parte del servizio veterinario competente, ai sensi dell’art. 14 bis del DLgs 30 gennaio 1993 n. 2810, con il quale si impone l’applicazione della misura cautelare di differimento della commercializzazione della partita di merce interessata in attesa del controllo.
Nel caso di esito positivo delle analisi, le successive cinque partite di merce di analoga tipologia e provenienza, introdotte nel territorio nazionale, sono considerate parimenti sospette, ed anche a queste, in via automatica, si applica la misura cautelare del differimento dell’ulteriore commercializzazione.
La portata penalizzante di una norma siffatta è evidente. Fermo restando che la presunzione di irregolarità così dilatata appare sproporzionata, essa diventa obiettivamente gravosa in mancanza di un’organizzazione che garantisca corrette e tempestive analisi. Sarebbe, dunque, opportuno introdurre protocolli ad hoc per la definizione delle attività di valutazione del rischio da parte dell’autorità competente, valutazioni che dovrebbero essere ancorate all’autorevolezza di studi scientifici.
Anche sul versante della comunicazione si dovrebbe intervenire per assicurare che le determinazioni adottate siano motivate. Solo fissando un obbligo specifico di comunicazione della motivazione della valutazione del rischio sarebbe possibile un controllo sulla stessa. Invece, in taluni casi, questo controllo è impedito in quanto l’operatore non è messo in grado di conoscere le ragioni tecniche e giuridiche che hanno determinato l’organo emanante all’adozione dell’allerta.
Altresì, si dovrebbero prevedere specifiche modalità di intervento nella procedura di valutazione del rischio al fine di assicurare il diritto di difesa dei soggetti interessati. Così come si dovrebbe prevedere la possibilità di opporsi alle valutazioni ritenute erronee, rivolgendosi ad un organo tecnico terzo e imparziale, appositamente istituito, che nell’ambito di una procedura effettivamente veloce ed esauriente garantisse un controllo sulle determinazioni oggetto di critica. In conclusione, appare proprio auspicabile che la procedura qui commentata sia oggetto di un’opportuna quanto mai responsabile rivisitazione, al fine di realizzare rapporti più equi tra le parti interessate.
Nazario Malandrino
Avvocato in Parma
Lino Vicini
Avvocato e Dottore di ricerca in “Disciplina nazionale ed europea sulla produzione e il controllo degli alimenti”, Parma
Claudio Mucciolo
ASL Salerno, Dipartimento di Prevenzione Servizio Igiene Alimenti di O.A.
Note
Attenti alla salute dei consumatori da ben 30 anni, RASFF Sistema di allarme rapido per gli alimenti e i mangimi dell’Unione Europea, Lussemburgo: Ufficio delle pubblicazioni delle Comunità europee, 2009.
Vds. Articolo 1 delle Decisioni del Consiglio 84/133/CEE e 89/45/CEE.
Considerando n. 59 del Reg. (CE) 178/2002.
Vds. Art. 3, Punto n. 9, n. 11 e n. 14 e Art. 14 del Reg. (CE) 178/2002.
Art. 7 del Reg. (CE) 178/2002: “Qualora, in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d’incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio… (omissis)”.
Fausto Capelli, Il Regolamento (UE) n. 16/2011 della Commissione europea sul “sistema di allarme rapido” in materia di prodotti alimentari e di mangimi, Alimenta, vol. XIX n. 4/11.
Rondanelli E.G., Fabbi M., Marone P. (2005), Trattato sulle infezioni ed intossicazioni alimentari, Selecta Medica.
EFSA, Parere del gruppo di esperti scientifici sui pericolo biologici concernenti il microrganismo “Bacillus cereus ed altri microrganismi della specie Bacillus nei prodotti alimentari (richiesta n. EFSA-Q-2004-010), adottato il 26-27 gennaio 2005.
Collana Dossier 30, Metodi microbiologici per lo studio di matrici alimentari, a cura del centro di documentazione per la salute Azienda USL città di Bologna e Ravenna, Arpa, 1997.
Vds. l’Art. 14 bis del DLgs 28/ 1993, sull’attuazione delle Direttive 89/662/CEE e 90/425/CEE relative ai controlli veterinari e zootecnici di taluni animali vivi e su prodotti di origine animale applicabili negli scambi intracomunitari.
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